Nel Mezzogiorno occupazione più bassa tra gli under35. Neet in leggero calo.

Nel Mezzogiorno l’occupazione è più bassa tra i laureati, soprattutto per gli under35. A rilevarlo oggi è l’Istat per il quale nel 2021 il tasso di occupazione dei laureati 25-64enni è all’82,1%, 4,3 punti più basso di quello medio europeo. Gap che sale al 6,8% tra i 30-34enni (81,1%) mentre è di 17,4 punti tra gli under 35 che hanno conseguito la laurea da uno a tre anni prima (67,5%).

Ampia, ancora, la distanza Ue27-Italia per la quota di 30-34enni laureati: 41,6% contro 26,8%. Al Nord e al Centro la quota raggiunge il 30%, mentre nel Mezzogiorno si ferma al 20,7%.

Problemi anche con riferimento alla questione di genere. Nonostante i livelli di istruzione tra le donne siano più elevati, i tassi di occupazione femminile sono decisamente più bassi (55,7% contro 75,8% degli uomini), ma il divario di genere si riduce al crescere del livello di istruzione (31,7 punti per i titoli bassi, 20,3 per i medi e 7,3 punti per gli alti). All’aumentare dei livelli di istruzione, i tassi di occupazione femminili crescono più marcatamente di quelli maschili: 19 punti tra laureate e diplomate (6 punti tra gli uomini) e 25,5 punti tra diplomate e donne con al massimo la licenza media inferiore (14,1 tra gli uomini).

Persistono, ancora, le discrepanze tra i livelli di istruzione tra Centro-Nord e Sud Italia. La popolazione (25-64 anni) residente nel Mezzogiorno è meno istruita rispetto a quella del Centro-nord: il 38,1% ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,4% ha raggiunto un titolo terziario; nel Nord e nel Centro circa il 45% è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,1% e 23,7% rispettivamente). Il divario territoriale nei livelli di istruzione riguarda uomini e donne, sebbene sia più marcato per la componente femminile.

Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è molto più basso che nel resto del Paese e quello di disoccupazione molto più alto anche tra chi ha un titolo di studio elevato: il tasso di occupazione dei laureati è pari al 73,5% (13 punti inferiore a quello del Nord) e quello di disoccupazione è 8,2% (superiore di cinque punti). Nel Mezzogiorno, tuttavia, i vantaggi occupazionali dell’istruzione sono superiori rispetto al Centro-nord, in particolare tra le donne che raggiungono un titolo terziario.

In Italia, nel 2021, la quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario (obiettivo fondamentale per una “società della conoscenza”) è del 26,8%. Il valore italiano resta lontano dal benchmark europeo stabilito dalla Strategia Europa 2020 (40%) e ridefinito per il 2030 dal Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (è 45% il valore benchmark nella classe 25-34 anni). Il gap da colmare, anche rispetto alla media europea (41,6% nell’Ue27) e con gli altri grandi paesi dell’Unione (49,5% Francia, 46,7% Spagna e 37,8% Germania) è davvero molto ampio, e negli ultimi anni è rimasto invariato.

Questo fenomeno è legato anche alla limitata disponibilità, in Italia, di corsi terziari di ciclo breve professionalizzanti, erogati dagli Istituti Tecnici Superiori che invece in alcuni Paesi europei forniscono una quota importante dei titoli terziari conseguiti: in Francia e in Spagna sono quasi un terzo del totale dei titoli terziari (29,7% e 28,1% rispettivamente), oltre un decimo (l’11,8%) nella media dei 22 paesi europei membri OCSE e il 16,1% nella media dei paesi OCSE.

In Italia, una giovane su tre (33,3%) e solo un giovane su cinque (20,4%) possiede un titolo terziario, ne deriva che il divario con l’Europa è maggiore per gli uomini (le medie Ue sono pari al 47,0% e 36,3% rispettivamente). Il divario diventa ancora più marcato tra i giovani adulti di cittadinanza straniera: la quota di laureati è pari all’11,0% in Italia e al 36,8% nella media Ue. Anche il divario territoriale a sfavore del Mezzogiorno è molto marcato: è laureato un giovane su cinque (20,7%), contro tre giovani su dieci nel Centro e nel Nord (30,0% e 30,4%).

Il background familiare condiziona fortemente la possibilità che un giovane raggiunga un titolo terziario. Nelle famiglie con almeno un genitore laureato, la quota di figli 30-34enni che hanno conseguito un titolo terziario è pari al 70,1%, se almeno un genitore è diplomato cala al 39,3% e scende all’11,4% quando i genitori possiedono al più un titolo secondario inferiore. L’associazione tra contesto familiare e titolo di studio è meno stretta per le giovani donne; la quota delle figlie con titolo terziario nelle famiglie con elevato livello di istruzione è infatti cinque volte superiore a quella registrata nelle famiglie con bassi livelli di istruzione, mentre tra i loro coetanei la differenza sale a circa nove volte.

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Il vantaggio occupazionale della laurea rispetto al diploma, rileva ancora l’Istat, è molto evidente: tra i 30-34enni laureati il tasso di occupazione è di oltre 12 punti più elevato rispetto a quello dei diplomati.

Tra le giovani il tasso di occupazione delle laureate resta significativamente inferiore a quello maschile (78,3% contro 85,7% dei laureati), sebbene il vantaggio occupazionale della laurea rispetto al diploma per le giovani adulte sia più elevato di quello delle donne più mature.

Nel Mezzogiorno, è la ridotta domanda di lavoro anche dei livelli di istruzione più elevati a determinare il divario territoriale osservato nella quota di laureati occupati, amplificandosi ulteriormente tra i più giovani. Nel 2021, la differenza tra Nord e Mezzogiorno nei tassi di occupazione dei 30-34enni laureati è di 23 punti (13 punti nella popolazione 25-64 anni).

Nel 2021, il tasso di occupazione dei 30-34enni laureati, dopo il calo del 2020, ha registrato una crescita di 3,4 punti; l’incremento maggiore si osserva tra le donne (3,8 verso 2,8 punti), che erano state le più penalizzate dalla pandemia.

L’impatto della pandemia sull’occupazione ha investito soprattutto i residenti del Nord e del Centro, ma la crescita della quota di occupati nel 2021 si è registrata in tutte le tre ripartizioni geografiche.

Ancora alta la quota di giovani che abbandonano gli studi. Una delle priorità dell’Unione europea nel campo dell’istruzione e della formazione è la riduzione dell’abbandono scolastico, che ha gravi ripercussioni sulla vita dei giovani e sulla società in generale.

Il fenomeno è monitorato a livello europeo attraverso la quota di 18-24enni che, in possesso al massimo di un titolo secondario inferiore, sono fuori dal sistema di istruzione e formazione (Early Leavers from Education and Training, ELET). Questo indicatore è stato uno dei benchmark della Strategia Europa 2020 che ne fissava il valore target europeo al 10%, abbassato al 9% per il 2030 nel nuovo Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione.

In Italia, nel 2021 la quota di 18-24enni con al più un titolo secondario inferiore e non più inseriti in un percorso di istruzione o formazione è stimata al 12,7% (517mila giovani). Nonostante l’Italia abbia registrato notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, la quota di ELET resta tra le più alte dell’Ue (9,7%), inferiore solo a Spagna (13,3%) e Romania (15,3%); scende al 7,8% in Francia e all’11,8% in Germania. Abbandonano la scuola più i ragazzi (14,8%) delle ragazze (10,5%) (Figura 6).

I divari territoriali restano ampi: nel 2021, l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale riguarda il 16,6% dei 18-24enni nel Mezzogiorno, il 10,7% al Nord e il 9,8% nel Centro.

Tra i giovani con cittadinanza non italiana, il tasso di abbandono precoce degli studi è oltre tre volte quello degli italiani: 32,5% contro 10,9%. L’incidenza di abbandoni precoci tra gli stranieri nati all’estero varia molto a seconda dell’età di arrivo in Italia. Per chi è entrato in Italia quando aveva tra i 16 e i 24 anni la quota raggiunge il 55,9%, tra i 10 e i 15 anni il 37,0%, tra quelli arrivati entro i nove anni di età la quota, pur restando elevata, scende al 21,8%.

L’appartenenza familiare influenza anche l’abbandono scolastico. Così come il raggiungimento di un titolo terziario, anche la dispersione scolastica è fortemente condizionata dalle caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine. Se il livello di istruzione è basso, si riscontrano incidenze di abbandoni precoci molto elevate.

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L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda il 25,8% dei giovani con genitori aventi al massimo la licenza media, scende al 6,2% se i genitori hanno un titolo secondario superiore e al 2,7% se almeno un genitore è laureato.

Più difficile trovare occupazione per chi abbandona gli studi. Nel 2021, il tasso di occupazione dei giovani che abbandonano gli studi è pari al 33,5%. Dopo il calo molto sostenuto registrato durante la crisi economica del 2008, non ha registrato alcuna significativa ripresa, evidenziando una condizione occupazionale particolarmente critica.

Anche nella media Ue27 il tasso di occupazione degli ELET è piuttosto contenuto (42,3%), sebbene di nove punti superiore a quello italiano. Il differenziale Italia-Europa si osserva anche nella quota di questi giovani che vorrebbero lavorare (12,5 punti): in Italia poco meno di uno su due a fronte di uno su tre in Europa.

Tra le giovani che hanno abbandonato gli studi il tasso di occupazione è molto più basso di quello dei coetanei maschi (20,8% contro 41,9%). Nel 2021, il divario di genere sale a 21,1 punti (da 14,3 nel 2018), a causa della più marcata riduzione del tasso di occupazione delle ELET durante la pandemia e della mancata ripresa nel 2021. Il vantaggio femminile osservato rispetto agli abbandoni scolastici precoci si annulla, dunque, per effetto della maggiore difficoltà delle donne a inserirsi nel mondo del lavoro e si traduce spesso in forme di esclusione sociale.

Nel Mezzogiorno, alla più elevata incidenza di giovani che abbandonano precocemente gli studi si associa un più basso tasso di occupazione (27,3%, contro 37,4% del Centro e 40% del Nord); il divario a sfavore del Mezzogiorno è dunque molto ampio, nonostante nell’ultimo biennio si sia ridotto.

Il tasso di occupazione degli ELET con cittadinanza straniera è 10 punti superiore a quello degli italiani (41,1% e 31,4%, rispettivamente).

La mancanza di opportunità educative implica una maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. I 18-24enni usciti dal sistema educativo dopo il conseguimento di una qualifica o di un diploma mostrano un tasso di occupazione di 16 punti superiore a quello degli ELET (49,5% contro 33,5%) e il tasso di mancata partecipazione, cioè la quota di non occupati tra quanti sono disponibili a lavorare, è significativamente maggiore tra gli ELET (56,0%) rispetto ai diplomati (40,9%).

In leggero calo la quota di NEET. I giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo e non impegnati in un’attività lavorativa, i cosiddetti NEET (Neither in Employment nor in Education and Training), presentano caratteristiche e motivazioni di base eterogenee ma hanno in comune una condizione che, se protratta a lungo, può comportare il rischio di concrete difficoltà di inclusione nel mondo del lavoro. L’attenzione a questo collettivo di giovani è molto alta a livello europeo e una recente raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea – COM(2020) 277 – ha ridefinito i contorni del fenomeno, le forti criticità e le possibili azioni di intervento.

Nel 2021, in Italia, la percentuale di NEET sul totale dei 15-29enni è pari al 23,1%, in leggero calo rispetto alla crescita registrata nel 2020 per l’impatto della pandemia sull’occupazione, ed è 10 punti percentuali superiore a quella europea (13,1%). L’Italia continua a registrare la più alta quota di NEET nella Ue27, decisamente più elevata di quella osservata in Spagna (14,1%), Francia (12,8%) e Germania (9,2%). La differenza con l’Europa è massima per i diplomati (11,8 punti); scende a 8,1 per i titoli terziari e a 7,5 punti per chi ha al più un titolo secondario inferiore.

Il calo dei NEET sull’anno precedente è stato molto marcato tra i giovani con titolo di studio terziario
(-3,6 punti) e ha più che compensato la crescita registrata a causa della pandemia; stabile invece la quota di NEET tra chi ha un basso livello di istruzione.

Nel 2021, l’incidenza dei NEET è pari al 23,0% tra i giovani con al più un titolo secondario inferiore, al 24,9% tra chi ha un titolo secondario superiore e al 17,3% per coloro che hanno conseguito un titolo terziario. Le quote di NEET osservate derivano anche dal numero dei giovani che continuano a studiare: se l’indicatore viene calcolato escludendo dal denominatore i giovani ancora in istruzione o formazione, in altre parole se si calcola la quota di chi non lavora tra chi non studia più, si passa dal 63,9% per chi ha al massimo un titolo di studio secondario inferiore al 42,4% per chi ha un titolo secondario superiore, confermando l’indubbio vantaggio occupazionale di possedere almeno un diploma.

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Nel 2021, la quota di NEET è diminuita tra i giovani, uomini e donne; resta dunque invariata la differenza di genere, con un’incidenza di NEET maggiore tra le seconde (21,2% e 25,0% rispettivamente).

Nel Mezzogiorno la quota di NEET è pari al 32,2% (17,0% e 19,6% nel Nord e nel Centro) e sale al 33,3% tra gli stranieri (21,9% tra gli italiani), con una forte differenza di genere: 42,0% è la quota di NEET tra le straniere e 23,0% tra le italiane (24,2% e 20,9% le rispettive quote degli uomini).

Tra i NEET disoccupati uno su due alla ricerca di lavoro da almeno un anno. Nel 2021, con la ripresa del mercato del lavoro diminuiscono i NEET disoccupati e quelli appartenenti alle forze di lavoro potenziali. Aumenta dunque tra i NEET la quota degli inattivi che non cercano un impiego e non sarebbero disponibili a lavorare (35,9%, +2,7 punti), più frequentemente di genere femminile, con responsabilità familiari di cura e assistenza a bambini o adulti non autosufficienti.

La percentuale maggiore di inattivi si rileva tra i giovani NEET con al più un titolo secondario inferiore (45,1%), soprattutto se donne (56,8%). L’inattività è minima tra i NEET del Mezzogiorno, tra i quali ben il 71,0% (53,3% nel Nord e 64,1% nel Centro) si dichiara interessato al lavoro (disoccupati o forze di lavoro potenziali), a indicare come in quest’area del Paese le minori opportunità lavorative pesino di più sulla condizione di NEET. Infine, anche sulla maggiore inattività dei NEET stranieri rispetto agli italiani incide la componente femminile.

Nel 2021, il 51,6% dei NEET disoccupati è alla ricerca attiva di lavoro da almeno 12 mesi, una quota più alta di quella del 2020 (44,9%).

I NEET disoccupati (cioè alla ricerca attiva di un lavoro) sono quelli più attenti alle dinamiche del mercato del lavoro e dunque più facilmente integrabili; tuttavia, se la ricerca di un’occupazione si prolunga nel tempo cresce il rischio di transito all’area dell’inattività. I NEET disoccupati da 12 mesi o più sono 350mila e risiedono prevalentemente nelle regioni meridionali, dove rappresentano il 61,0% dei NEET disoccupati (46,3% nel Centro e 39,4% nel Nord).

Transizione scuola-lavoro di diplomati e laureati: Italia lontana dall’Ue (chi lo avrebbe mai detto!). I tassi di occupazione, di disoccupazione e di mancata partecipazione – calcolati sul collettivo dei 20-34enni diplomati e laureati, non più inseriti in un percorso di istruzione o formazione e che hanno conseguito il titolo di studio (secondario superiore o terziario) da un anno a non più di tre anni – sono gli indicatori utilizzati per monitorare la transizione scuola-lavoroi.

Nel 2021, in Italia, il tasso di occupazione dei giovani in transizione dalla scuola al lavoro è stimato al 49,9% tra i diplomati e al 67,5% tra i laureati, valori inferiori a quelli medi Ue di 23,2 punti e di 17,4 punti rispettivamente. D’altra parte, i tassi di disoccupazione si attestano al 28,7% tra i diplomati e al 15,6% tra i laureati, risultando superiori di 14,0 e 6,8 punti, rispettivamente, a quelli medi europei. I divari con l’Europa aumentano per la componente femminile e diventano massimi per le giovani donne diplomate, a conferma delle ridotte prospettive occupazionali dei giovani in Italia all’uscita dal ciclo di studi.

Se si calcola il tasso di mancata partecipazione, che oltre ai disoccupati tiene conto anche delle persone che non hanno cercato lavoro nelle ultime quattro settimane ma sarebbero disponibili a lavorare, le quote salgono al 41,6% tra i diplomati e al 24,9% tra i laureati.

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