“Giovani 2024: il bilancio di una generazione”. In Italia perso oltre un quinto dei giovani.

L’Italia ha perso in venti anni oltre un quinto dei giovani, diventando ultima in Europa per la presenza di under 35. Crisi di rappresentatività e crollo della rappresentanza: soltanto un elettore su 5 ha meno di 35 anni, e i giovani eletti alla Camera crollano sotto il 7%. Istituzioni ancora distanti dalle esigenze dei giovani ma cresce la fiducia nell’Europa. Questi, in sintesi, sono alcuni highlights contenuti nel lavoro di indagine “Giovani 2024: il bilancio di una generazione”, condotto da Eures per l’Agenzia Italiana per la Gioventù e il Consiglio Nazionale dei Giovani.

Il documento, spiegano i promotori, conferma dati preoccupanti riguardanti la demografia, l’istruzione e l’occupazione, evidenziando in modo particolare la riduzione demografica dei giovani, il fenomeno della fuga di cervelli, la precarietà lavorativa e la disuguaglianza territoriale e di genere.

L’Italia si confronta con una sfida demografica di vasta portata, evidenziata da un calo significativo nella sua popolazione giovane. Negli ultimi due decenni, abbiamo assistito a una riduzione di quasi 3,5 milioni di giovani under 35, con un tasso di decremento di circa il 21%. Questo fenomeno ha colpito particolarmente il segmento femminile, con una diminuzione di quasi il 23% contro il quasi 20% maschile. Un confronto che a livello europeo pone l’Italia in una posizione allarmante: siamo gli ultimi per incidenza di giovani, ben sotto la media dell’Unione Europea.

La fuga di cervelli si manifesta in modo preoccupante, con quasi 18 mila giovani laureati che hanno optato per l’espatrio nel 2021, un aumento del 281% rispetto al 2011. Questo scenario si accompagna a una crescente instabilità nel mercato del lavoro, dove il precariato coinvolge il 41% degli under 35, evidenziando una condizione di incertezza e discontinuità lavorativa che affligge in modo particolare i più giovani.

Le disparità territoriali aggiungono un ulteriore livello di complessità, con il Sud Italia che registra tassi di disoccupazione giovanile notevolmente superiori rispetto al Nord, e dove il salario medio annuo dei giovani lavoratori è significativamente più basso. Queste condizioni sfavorevoli si riflettono anche sulla capacità dei giovani di accedere a opportunità di lavoro stabili e retribuzioni adeguate, influenzando negativamente la qualità della vita e le aspettative future.

Le basse retribuzioni dei giovani nel settore privato rappresentano una problematica significativa. Nel corso del 2022, la retribuzione lorda media annua dei giovani dipendenti del settore privato (15-34 anni) si è fermata a 15.616 euro, rispetto ai 22.839 euro complessivamente rilevati nel settore. Questa disparità retributiva si manifesta anche nei diversi tipi di contratto: i giovani con contratti stabili percepiscono in media 20.431 euro, mentre coloro con contratti a termine e stagionali guadagnano rispettivamente 9.038 euro e 6.433 euro. Nel settore pubblico, invece, i giovani lavoratori (15-34 anni) hanno raggiunto una retribuzione lorda media annua di 23.253 euro nel 2022, che rappresenta una volta e mezza quella del settore privato. Tuttavia, nonostante un incremento nominale delle retribuzioni dal 2018, sia nel settore privato sia in quello pubblico, considerando l’inflazione, si registra una diminuzione del potere d’acquisto, con una variazione negativa delle retribuzioni reali pari al -1,7% nel privato e al -7,5% nel pubblico.

Dal punto di vista politico e sociale, la diminuzione della popolazione giovanile ha avuto ripercussioni evidenti sull’ elettorato giovane, che in 20 anni si è drasticamente ridotto – passando dal 30,4% del 2002 al minimo storico del 21,9% nel 2022. Più rilevante il dato sulla rappresentanza politica, il taglio dei Parlamentari ha colpito quasi esclusivamente gli under 35, con un drastico calo dei giovani eletti, che tra il 2018 e il 2022 hanno subito un decremento dell’80%, passando da 133 a 27, determinando un’influenza sempre minore dei più giovani. L’indagine realizzata tra i giovani italiani mostra un forte senso di alienazione dalle istituzioni, percepite come inefficaci nel rispondere alle loro esigenze: solo il 12% esprime un giudizio positivo sulla sensibilità delle istituzioni verso le problematiche giovanili e per l’85% del campione il livello di attenzione politica nei confronti dei giovani è inadeguato. La percezione cambia se si guarda all’Unione Europea, che riceve una piena sufficienza (6/10) nell’indice di fiducia.

Il percorso formativo viene valutato positivamente dalla maggior parte delle ragazze e dei ragazzi, con un apprezzamento particolare per le opportunità offerte da programmi europei come l’Erasmus+. Tuttavia, la realizzazione personale e professionale rimane ostacolata da barriere significative, tra cui l’instabilità occupazionale e l’accesso limitato all’abitazione, che impediscono una piena transizione verso l’indipendenza e la vita adulta.

Le preoccupazioni legate all’ingresso nel mondo del lavoro dominano il panorama giovanile, con la paura di precarietà e sotto-retribuzione che si sommano ai timori di ricatti, molestie o vessazioni sul posto di lavoro, indicati dal 17,5% dei giovani.

Cosa serve agli under 35 per diventare adulti? Per affrancarsi dai genitori, condizione primaria è quella di ottenere un lavoro stabile. Allo stesso modo, per crearsi una famiglia, quasi il 70% dei giovani indica il bisogno di una situazione economica adeguata. A proposito di genitorialità, più del 60% degli intervistati esprime il desiderio futuro di avere figli. Il 72% del campione, inoltre, attribuisce un ruolo centrale al fenomeno della denatalità.

Nel rapporto tra generazioni, colpisce il fatto che secondo l’opinione di tre intervistati su quattro (quasi il 75%), gli adulti comprendano “poco” (61%) o “per niente” (più del 13%) le esigenze e il vissuto dei giovani, in particolare le paure e fragilità (quasi il 61% delle indicazioni), seguito da aspirazioni e sogni (circa il 50%).

Questi dati sottolineano l’urgenza di interventi politici e sociali mirati a migliorare le condizioni di vita e le prospettive dei giovani in Italia, attraverso la promozione di un mercato del lavoro più stabile e inclusivo, una maggiore valorizzazione delle competenze e un dialogo intergenerazionale rinnovato.

“I dati emersi nel rapporto di ricerca – spiega Federica Celestini Campanari, Commissario straordinario dell’Agenzia Italiana per la Gioventù – fanno emergere una realtà difficile, in cui i problemi che i giovani italiani vivono ormai da più di un decennio risultano certamente aggravati dalla pandemia, dalla guerra e dalle recenti crisi economiche”.

Tra il 2002 e il 2023, si legge nel rapporto, l’Italia ha visto diminuire di 3,4 milioni di unità il numero dei giovani residenti (15-35 anni), passati da 16,1 milioni a 12,7 milioni di unità, subendo quindi una perdita di oltre un quinto dei propri giovani (-21,2%).

Ancora più consistente la flessione nella componente femminile (-22,8%, a fronte del -19,7% per quella maschile), dove risulta inferiore la compensazione della denatalità da parte dei fluissi migratori in ingresso. Tale flessione, più ampia di quella maschile in tutte le classi di età, arriva a superare il -30% in quella “25-35 anni”.

Molto negativo risulta inoltre il risultato del confronto tra i 27 Paesi europei, dove l’Italia si colloca in ultima posizione per la presenza di giovani (il dato Eurostat considera la fascia 18-34 anni), con un’incidenza di appena il 17,4%, a fronte del 19,4% della media UE, con scarti particolarmente rilevanti rispetto ai Paesi più virtuosi (23,7% in Lussemburgo, 22,1% in Danimarca, 21,9% nei Paesi Bassi e 21,7% in Svezia). 

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Le forti modificazioni della struttura demografica, che pure muovono dalle dinamiche naturali, rimandano direttamente all’attrattività dei territori, ed ai processi migratori che ne derivano. Negli ultimi venti anni, infatti, mentre il Nord ha visto diminuire i giovani del 16,9% e le regioni del Centro del 18,9%, il calo è stato del 27,3% al Sud dove, secondo gli ultimi dati disponibili, risiede il 36% dei giovani italiani, a fronte del 45,1% al Nord e del 18,9% al Centro.

Gli effetti dell’inverno demografico sono peraltro chiaramente riscontrabili anche negli ultimi anni: tra il 2019 e il 2022, infatti il saldo negativo, pari a -378 mila giovani di 15-34 anni residenti in Italia (-2,9%), risulta fortemente concentrato al Sud (-309 mila unità e -6,5%), a fronte di una perdita meno marcata al Centro (-65 mila unità e -2,7%) e di una sostanziale tenuta demografica dei giovani al Nord (-0,1% e -4,7 mila unità). 

L’incidenza dei laureati nella fascia 25-34 anni (29,2%) del Paese, inoltre, risulta fortemente inferiore alla media europea (42%) e lontanissima da quella dei paesi più virtuosi quali l’Irlanda (62,3%), il Lussemburgo (61%), i Paesi Bassi (56,4%), la Svezia (52,4%) e il Belgio (51,4%). Inoltre nel solo 2021 sono quasi 18 mila (17.997 unità) i giovani laureati che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero, con una crescita del 281% rispetto ai 4.720 del 2011, che raggiunge il +402% tra i giovani del Sud, a fronte del +283% al Centro e del +237% al Nord.

Ma un “trasferimento di cervelli” si rileva anche all’interno del Paese: dei 56 mila giovani laureati che hanno lasciato la propria regione nel 2021, ben il 48,6% era del Sud, con un saldo negativo interno pari a -17,8 mila unità, assorbite in larga misura dalle regioni del Nord (+14,7 mila unità) e, secondariamente, da quelle del Centro (+3,1 mila).

Nel 2023 in Italia il tasso di occupazione giovanile (15-34 anni) ha raggiunto il 45% (20,4% nella fascia “15-24 anni” e 68,1% in quella “25-34 anni”), con una crescita di 1,3 punti percentuali rispetto al 2022, pur rimanendo ancora distante dall’indice riferito all’intera popolazione (61,5%). Anche il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 13,4% nel 2023 (22,7% nella fascia 15-24 anni e 10,3% in quella 25-34) indica una dinamica positiva, registrando una flessione di 1 punto percentuale rispetto al 14,4% del 2022.

Resta tuttavia alto il differenziale territoriale, con un tasso di occupazione giovanile fermo al Sud al 33,1%, contro il 47,3% al Centro e il 53,4% al Nord; analogamente il tasso di disoccupazione (15-34 anni) raggiunge al Sud un valore (23,9%) pari al triplo di quello del Nord (8%) e ad oltre il doppio di quello del Centro (11,1%). Consistente anche il differenziale di genere, con un tasso di occupazione femminile (15-34 anni) del 38,6%, a fronte del 51% per quello maschile.

In Italia i giovani lavoratori del settore privato (5,5 milioni, pari al 91,5% dei giovani dipendenti totali) vivono una condizione di diffusa e crescente discontinuità lavorativa: il 40,9% degli under35enni ha infatti un contratto precario (a tempo determinato o stagionale), contro il 59,1% con contratto stabile, cioè a tempo indeterminato o in apprendistato (erano il 59,4% nel 2018). I lavoratori stabili scendono al 42,3% del totale nella fascia 15-24 anni, per attestarsi al 67% in quella successiva (25-34 anni).

Ancora più negativi i dati relativi alle nuove attivazioni contrattuali (2023) che, in linea con una tendenza trasversale del mercato del lavoro, tra gli under 30 risultano “precarie” nel 79,8% dei casi e soltanto nel 20,2% “stabili” (10,3% a tempo indeterminato e 9,9% in apprendistato).

Analoga risulta la situazione nel settore pubblico (dove lavorano 516 mila giovani under35), dove gli “atipici” rappresentano il 48,6% del totale dei giovani dipendenti (erano il 47,7% nel 2018), a fronte del 51,4% di lavoratori stabili (nella fascia 15-24 anni nel settore pubblico i “precari” arrivano tuttavia a rappresentare il 74,4%). 

La precarietà contrattuale sopra descritta, si traduce in una discontinuità strutturale sul piano lavorativo e salariale: nell’anno 2022 soltanto il 39,0% dei giovani dipendenti del settore privato ha infatti ricevuto 12 o più mensilità retributive dal datore di lavoro, mentre per il 32,7% il periodo retribuito è risultato inferiore a 6 mesi (il 19,5% “fino a tre mensilità” e il 13,2% “da tre a meno di 6 mensilità”), con effetti dirompenti sulla qualità e sui progetti di vita e, a lungo termine, sul futuro pensionistico. 

Nel 2022 la retribuzione lorda media annua dei giovani (15-34 anni) lavoratori dipendenti del settore privato ammontano a 15.616 euro  (9.546 euro nella classe “15-24 anni” e 18.447 in quella “25-34 anni”), a fronte dei 22.839 euro complessivamente censiti nel settore. Più in particolare i risultati retributivi si legano alla situazione contrattuale, con valori pari a 20.431 euro per i giovani con contratti stabili, a fronte dei 9.038 euro dei giovani lavoratori con contratti a termine e dei 6.433 euro tra gli stagionali. Differenziali significativi si rilevano inoltre in base al genere, con retribuzioni medie pari a 17.436 tra gli under35 maschi, contro 13.233 euro tra le femmine, così come a livello territoriale: al Sud, infatti, le retribuzioni medie dei giovani si attestano a 11.594 euro, contro i 14.722 mediamente percepiti al Centro e, soprattutto, a fronte dei 17.692 euro dei giovani del Nord. 

Per quanto riguarda il settore pubblico, nel 2022 le retribuzioni lorde dei lavoratori giovani (15-34 anni) raggiungono i 23.253 euro (34.153 la media del settore), pari ad una volta e mezzo quelle del settore privato.

Sia per i giovani lavoratori del settore privato sia per quelli della pubblica amministrazione le retribuzioni risultano in crescita, a livello nominale, rispetto al 2018 (rispettivamente +1.200 euro e +693 euro); tuttavia, considerate al netto dell’inflazione, le variazioni assumono un segno negativo, con valori pari, rispettivamente, al -1,7% e al -7,5%.

La crisi demografica ha effetti diretti anche sul “peso” dell’elettorato giovane, che in 20 anni si è drasticamente ridotto, passando l’incidenza degli under35  “aventi diritto al voto” dal 30,4% del 2002 al minimo storico del 21,9% nel 2022. Inoltre i dati demoscopici indicano un forte disinteresse dei giovani al voto, con livelli di astensionismo che alle ultime elezioni politiche hanno raggiunto il 42,7%, a fronte del 36,1% rilevato dal Ministero dell’Interno per l’intero elettorato. 

Ancora più rilevante il dato sull’elettorato passivo, che ha visto drasticamente ridursi la rappresentanza dei giovani: il taglio dei Parlamentari, previsto dalla Modifica costituzionale dopo il referendum del 2020 ha infatti colpito quasi esclusivamente la componente più giovane (fino a 35 anni) che tra il 2018 e il 2022 ha subito un decremento dell’80%, scendendo da 133 a 27 eletti, cioè dal 21,1% ad un marginale 6,8% del totale, a fronte del -24,9% tra gli over35. Contestualmente l’età media degli eletti è salita di oltre 5 anni, passando dai 44,1 anni del 2018 ai 49,3 del 2022.

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L’85,1% dei giovani giudica inadeguato il livello di sensibilità e attenzione delle Istituzioni verso le esigenze dei giovani (per il 43,6% è “piuttosto inadeguato” e per il 41,5 “del tutto inadeguato”), raggiungendo tale opinione l’88,2% nella fascia 25-35 anni e l’87,5% tra le ragazze; soltanto un giovane su 8 (il 12,1%) esprime invece una valutazione positiva, definendo l’attenzione delle Istituzioni “abbastanza adeguata” (9,1%) o “del tutto adeguata” (3%). 

A tale riguardo il 36,3% del campione non individua alcuna area di “eccellenza” nelle politiche pubbliche degli ultimi dieci anni, mentre gli interventi più significativi sono indicati nelle politiche per la natalità (15,1% delle citazioni), per la scuola/istruzione (14,6%), per la cultura (12,2%) e per l’Università e la formazione (10,9%). In termini negativi, le maggiori criticità sono invece individuate nelle politiche per il lavoro (47,7% delle adesioni) e nelle politiche sociali e per la salute mentale (33,5% delle citazioni, che raggiungono il 41,8% tra le ragazze).

Pur in presenza di un basso livello di fiducia verso le Istituzioni complessivamente intese, l’Unione Europea riceve una piena sufficienza (con un voto pari a 6/10), mentre decisamente inferiore risulta l’indice di fiducia verso le altre istituzioni ed attori sociali, con valori pari a 5,5/10 per il sistema universitario, a 4,9/10 per il sistema imprenditoriale, a 4,8 per il sistema scolastico, a 4,4 per le Istituzioni locali ed a 3,8/10 per le Istituzioni Centrali (Governo e Parlamento), presumibilmente perché considerate “colpevoli” di non mettere in campo il potenziale normativo e finanziario di cui dispongono per migliorare davvero la condizione dei giovani. 

Il percorso formativo seguito, sulla cui scelta hanno inciso nel 43,7% dei casi le capacità e caratteristiche del giovane e soltanto nel 28,3% le opportunità lavorative attese, ha soddisfatto “molto” o “abbastanza” il 74,4% dei giovani intervistati (contro il 25,6% di insoddisfatti). All’interno di questa valutazione, di particolare interesse risulta il giudizio sulle opportunità offerte dall’Unione Europea attraverso le articolazioni del programma Erasmus+, cui il 22,8% dei giovani intervistati afferma di aver partecipato. Il 77,2% indica invece di  non aver avuto tale esperienza, a conferma di quanto sarebbe importante incrementare ulteriormente i finanziamenti al riguardo: l’80,2% dei partecipanti ai Programmi ha infatti affermato che tale esperienza formativa ha modificato il percorso formativo o professionale (il 40,9% “molto” e il 39,3% “abbastanza”), mentre soltanto il 19,8% indica un impatto “debole” (15,9%) o, marginalmente (3,9%) “assente”. 

Se la grande criticità dei giovani italiani è quella dell’autonomia e della piena transizione alla vita adulta, la pre-condizione necessaria affinché possano lasciare la casa materna/paterna è quella di trovare un lavoro stabile, indicata dal 65,7% del campione (71,3% tra le ragazze, a fronte del 58,6% tra i maschi). Accanto al lavoro stabile, la transizione alla vita adulta implica l’avveramento di altre condizioni materiali, quale la disponibilità di una casa a prezzi accessibili (33,7% delle indicazioni) o quella di risparmi per poter fronteggiare eventuali imprevisti (20,6%). Circa un terzo del campione, prima poter lasciare la casa paterna/materna attende di terminare il percorso di studi (36,7%), l’11,6% di trovare un lavoro anche saltuario e il 9,1% di avere una relazione affettiva stabile (evidentemente prefigurando l’uscita di casa come subordinata ad una scelta di coppia). Marginale risulta infine la percentuale di intervistati che vincola l’uscita dalla casa dei genitori alla disponibilità di una casa vicina a quella materna/paterna (2%), all’attesa di un figlio (1,1%), o che sceglie di restare a vivere a casa con i propri genitori, nonostante disponga delle condizioni materiali e/o relazionali per cambiare orizzonte (2,1%).

Anche per rilanciare la natalità o, quanto meno, per frenare la dinamica naturale decrescente, il fattore discriminante è indicato dai giovani in una condizione economica adeguata (69,4% delle citazioni), che può essere garantita soltanto da un lavoro stabile (53,4%). Più distanti risultano le altre “condizioni”, quali una solida relazione di coppia (39,2%), la disponibilità di tempo da trascorrere con i figli (28,1%), la fiducia nel futuro (28%) e la situazione alloggiativa (20%). In coda alla graduatoria si collocano invece la presenza di incentivi economici (15%) e di servizi per l’infanzia (11,7%, che salgono rispettivamente al 18,7% e al 14,6% tra le ragazze), evidenziando come soltanto un cambiamento strutturale potrà generare a medio termine un’inversione di tendenza, mentre le politiche dei bonus e degli incentivi, pur utili, rischiano di favorire unicamente quelle coppie che hanno già acquisito stabilità e sicurezza a livello economica e lavorativo.

Al di là delle problematiche sopra evidenziate, se una forte maggioranza dei giovani intervistati  (il 60,3%) esprime il desiderio di avere in futuro dei figli (cui si aggiunge il 3,9% che ne ha già uno o più di uno), sul fronte opposto un giovane su sette (il 15%) afferma di non volerne (e il 20,7% non esprime una posizione al riguardo). Il “rifiuto della genitorialità” risulta peraltro più elevato tra le ragazze (17,2% contro il 12,8% dei maschi), tra i disoccupati (al 19,8%, contro l’11,9% tra gli occupati stabili) e nelle altre condizioni di vulnerabilità (16,7% tra i NEET e 15,8% tra i lavoratori precari), riaffermando ancora una volta come la costruzione del futuro non può che investire l’intero percorso di vita, se non si vuole che la rinuncia diventi il nuovo paradigma di quote sempre più consistenti di un’intera generazione.

Il 71,5% dei giovani riconosce comunque un ruolo centrale al tema della denatalità: il 35,5% lo considera infatti “una reale emergenza per il Paese”, mentre un altro 36% lo definisce “un problema reale”. Sul fronte opposto, meno di un quinto dei giovani ritiene che la denatalità rappresenti “soltanto” una dinamica naturale, in atto in tutto l’Occidente (19,5%), mentre per l’8,9% dei giovani si tratta di un tema veicolato con eccessivo allarmismo dai mass media.

Il 68,4% dei giovani intervistati, inoltre, si dice “preoccupato”  (il 25,4% “molto” e il 43% “abbastanza”) pensando al proprio ingresso nel mondo del lavoro, salendo tale indicazione al 75,8% tra le ragazze (a fronte del 60,4% tra i loro coetanei maschi) e al 71,1% tra i giovani del Sud, con scarti consistenti sul campione del Nord (65,3% delle indicazioni) e del Centro Italia (69,9%). Sul fronte opposto, soltanto il 19,4% risulta “poco preoccupato” e un residuale 7,1% “per niente preoccupato”

Al primo posto tra i timori dal campione si colloca quello di trovare un lavoro sottopagato (54,7%) o per lungo tempo instabile/precario (47,3%). La “disoccupazione di lunga durata” costituisce inoltre fonte di preoccupazione per il 35% del campione, così come quella di non trovare opportunità idonee alle proprie competenze (36,5%), o di trovare un lavoro dequalificato (28,4%). Soltanto in coda alla graduatoria delle preoccupazioni dei giovani si collocano il timore di dover lavorare nei giorni festivi e/o in orari notturni (8,6%) e quella di doversi trasferire in un’altra regione/paese (13,8%), restituendo una fotografia dei giovani del tutto antitetica rispetto alla superficiale narrazione dei “fannulloni” (o come è stato detto, dei choosy), troppo spesso strumentalmente veicolata dai media o da altri interlocutori, generalmente ipertutelati.

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Da sottolineare, infine, il diffuso timore di dover subire ricatti, vessazioni o molestie sul lavoro, indicato da ben il 17,5% dei giovani, che arriva a raggiungere il 24% tra le sole intervistate (9,7% tra i coetanei maschi), che per esperienza diretta o riferita denunciano come la mancanza di tutele, all’interno di un rapporto asimmetrico e sempre più disuguale, rischi di trasformare in una prassi diffusa anche i comportamenti più riprovevoli e penalmente rilevanti.

Coerentemente, il tema dei diritti e delle tutele (39,6%), le pari opportunità (26,3%), il contrasto alle molestie/violenze sul lavoro e la tutela della sicurezza sul lavoro (12,8% delle citazioni) rientrano tra le priorità delle giovani generazioni, seppure in secondo piano rispetto alle questioni “strutturali” del reddito/livello salariale (58% delle citazioni), dalla stabilità contrattuale/contrasto alla precarietà (44,9%) e di un maggiore riconoscimento del merito (34,5% delle indicazioni).

Nell’indicare i fattori che “regolano” l’ingresso di un giovane nel mondo del lavoro, il campione delinea un dualismo tra le capacità/competenze personali (37,8%) e le raccomandazioni (37,7%), ovvero l’appartenenza ad un sistema di relazioni forte in grado di alterare i meccanismi di “libero” accesso alle opportunità. Un giovane su 4 (il 25,1%) indica inoltre la volontà e determinazione, mentre uno su 5 (il 19,4%) attribuisce un peso significativo alla posizione sociale della famiglia di origine, riferendosi ancora una volta al “capitale relazionale” di cui si dispone; secondo il 19,3% del campione occorre inoltre essere dotati di adattabilità e flessibilità, per il 16,1% di serietà e affidabilità, mentre il 15,4% cita l’immagine e la capacità di presentarsi. In coda i giovani collocano la propensione alla subalternità/sottomissione e alla spregiudicatezza/carrierismo (con il 6,7% e il 6,5% delle citazioni), ovvero due tratti “estremi” di funzionalità e/o di adesione ad una sottocultura di impresa che privilegia il controllo individuale alla qualità complessiva delle relazioni tra le risorse umane.

L’equilibrio tra competenze e raccomandazioni lascia il campo a posizioni più nette nelle diverse componenti del campione, prevalendo il “disincanto” tra il giovani-adulti (25-35 anni) e nella componente femminile, che collocano le raccomandazioni al primo posto tra i fattori che agevolano l’accesso al mercato del lavoro  (rispettivamente con il 39% e il 41,2% delle citazioni); diversamente nel campione più giovane (15-24 anni) e in quello maschile prevalgono le citazioni relativa alle competenze/capacità individuali (rispettivamente con il 39,7% e il 36,7% delle citazioni).

La percezione diffusa di instabilità e di sotto-retribuzione quali componenti ormai strutturali del mercato del lavoro sembra spiegare l’affermazione della Pubblica Amministrazione quale settore e contesto lavorativo di riferimento per gli intervistati, che la collocano al primo posto tra le proprie aspirazioni occupazionali (con il 24,3% delle citazioni, che salgono al 26,5% tra le donne e al 30,7% al Sud). Tale opzione elettiva precede quella dell’ingresso in una multinazionale (20,7%) e del lavoro autonomo (20%), mentre ancora più distante risulta la “capacità attrattiva” del lavoro in una grande impresa italiana (13,7%). Non marginali, infine, le indicazioni relative al lavoro nel Terzo Settore (12,8%), quanto meno per la sua capacità prefigurata di gratificazione sul piano valoriale, mentre in ultima posizione si collocano le piccole imprese (con appena l’8,5% delle indicazioni), che pure costituiscono la quota più consistente della domanda di lavoro.

L’esperienza della pandemia e le sue profonde ferite sembrano aver modificato la gerarchia dei fattori che determinano la qualità della vita dei giovani: al primo posto, infatti, il campione colloca la salute (fisica e mentale), con un voto medio pari a 8,9/10, che precede la  famiglia (con un voto medio pari a 8,6/10) e gli amici (8,3/10), ovvero i tre contesti maggiormente condizionati dalle prescrizioni del lockdown e del distanziamento sociale. Pur confermandosi importanti, scendono leggermente nella gerarchia indicata la formazione e la cultura (8,2/10), il denaro (7,9/10) e l’amore (7,1/10) che appare soggetto ad una forte trasformazione – così come il riferimento alla coppia – dove l’indipendenza prevale sull’interdipendenza e dove la costruzione di un piano condiviso succede, soprattutto tra le ragazze, all’acquisizione della piena autonomia e ad un progetto compiuto di autodeterminazione. 

È infatti proprio la parità di genere (con un voto medio pari a 8,9/10) il principale riferimento valoriale del campione, seguito dalla “tolleranza, rispetto e riconoscimento delle diversità” e dal valore della “accoglienza, inclusione e solidarietà” (entrambi con un voto pari a 8,7/10).

In piena coerenza con quanto emerso in alcuni passaggi della ricerca, il contrasto alla violenza di genere rappresenta, secondo il 56,8% del campione (69,9% tra le ragazze e 42,5% tra i ragazzi) il primo e più importante ostacolo da rimuovere per migliorare la qualità della vita dei giovani; al secondo posto gli intervistati collocano la lotta alla criminalità organizzata (45,5% delle citazioni, che salgono al 56,5% tra i giovani del Sud), capace di condizionare nel profondo la vita e le relazioni di una comunità; seguono le richieste relative al contrasto alle discriminazioni (41,9%), alla violenza giovanile (35,5%), allo spaccio di stupefacenti (31,9%), alla corruzione (27,8%) e alla ludopatia (10%).

Il “rischio percepito”, e quindi la richiesta di interventi, non rispecchia le indicazioni emerse sulla diffusione dei fenomeni illegali, tra i quali, al primo posto i giovani collocano lo spaccio/traffico di stupefacenti (88,3% delle indicazioni), cui seguono i fenomeni di discriminazione (“molto” o “abbastanza diffusi” per l’83,3% del campione), la corruzione (81,2%), la violenza di genere (79,4%), il gioco d’azzardo (75,4%), la violenza giovanile (74,6%) e la criminalità organizzata (73,4%, che sale alll’80,2% nel campione del Sud).

La distanza nei modelli, nei valori, nella progettualità e nella ricerca di senso, che tradizionalmente caratterizza il passaggio tra le generazioni, sembra assumere nel corso del tempo la forma di una cesura sempre più marcata, amplificata dalla rivoluzione digitale che ha dirottato lo spazio sociale dei giovani in una dimensione spesso indecifrata o comunque impenetrabile dal mondo adulto. Al di là della naturale distanza che delimita lo spazio tra le generazioni, colpisce il fatto che secondo l’opinione di tre intervistati su quattro (il 74,7%) gli adulti comprendano “poco” (61,1%) o “per niente” (13,6%) le esigenze e il vissuto dei giovani.

A risultare incompresa è la dimensione interiore/introspettiva dei giovani, ovvero lo spazio delle paure e fragilità (60,7% delle indicazioni), e quello delle aspirazioni e dei sogni (49,4%); inferiori le citazioni relative ai modelli/valori (35,7%) ed ai linguaggi (21%), ovvero al piano del comportamento manifesto; la percentuale inferiore di risposte  si rileva infine per quanto riguarda i bisogni materiali, dove soltanto il 7,9% dei giovani  affermano che il mondo adulto non riesca a capirne le esigenze.

Dal disagio e dall’incomprensione all’interno del contesto familiare traggono origine, per il 69,1% dei giovani, i fenomeni antisociali o violenti come il bullismo; ma nella genesi della violenza giovanile trovano spazio anche la scarsa autostima e la difficoltà di inserimento sociale (34%), il desiderio di accettazione (29%) e l’adesione a modelli culturali negativi veicolati dai social (24,4%).

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