Afghanistan, un anno di regime talebano.

Un anno fa, a quest’ora, le milizie talebane arrivavano nel distretto di Char Asyab alle porte di Kabul, dopo 20 lunghi anni di occupazione militare da parte delle forze occidentali. L’avanzata, come ricordato dagli osservatori, fu repentina come ricordato dalla conquista dei 26 (su 34) capoluoghi del Paese “senza sparare un colpo”. Eventi che hanno macchiato indelebilmente la leadership dell’Occidente, ponendo le basi, peraltro, per la ricostruire nel Paese di un rifugio sicuro per i terroristi, dati i presunti collegamenti, come indicato da alcuni rapporti delle Nazioni Unite, tra al-Qaeda e il regime talebano, la cui collaborazione avrebbe dovuto esaurirsi come indicato nell’accordo di Doha del 29 febbraio 2020.

Un aspetto, quest’ultimo, da rimarcare alla luce della propaganda contro il terrorismo che portò prima all’invasione americana dell’Afghanistan e, in seguito, alla giustificazione della presenza militare straniera del montuoso Paese dell’Asia Centrale.

Presenza interrottasi 365 giorni. A ricordarcelo le drammatiche immagini dell’evacuazione del personale diplomatico e straniero presente allora in Afghanistan. Frame capaci di confermare l’inadempienza delle promesse delle “potenze democratiche” nei confronti del popolo afghano, ormai abbandonato al suo destino, come ricordato dai famigerati “bottini di guerra” femminei, e dalle successive politiche del governo talebano a sostegno della segregazione delle donne afgane.

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Questioni sulle quali l’Occidente aveva in più occasioni dichiarato di voler introdurre meccanismi di protezione per le donne e le ragazze dalla violenza e dai matrimoni forzati. Tutte fesserie, come ricordano i (pochi) dati sulla violenza domestica nel Paese. Che dire poi degli abusi subiti dai vari gruppi etnici e religiosi? Nulla, se non la mera constatazione di abusi sistematici e istituzionalizzati verso i diritti economici, sociali, culturali, civili e politici delle minoranze. Abusi, come facilmente immaginabile, che includono esecuzioni extragiudiziali, arresti, detenzioni arbitrarie, torture e intimidazioni. Il successo degli accordi di Doha sono sotto gli occhi di tutti.

Ma secondo la narrazione odierna contenuta nella nota stampa del Portavoce del SEAE, Peter Stano, l’UE sta mantenendo il suo impegno nei confronti del popolo afgano “per la stabilità, la prosperità e la pace sostenibile in Afghanistan”. Un processo che richiederà secondo il portavoce del SEAE “la partecipazione piena, equa e significativa di tutti gli uomini e le donne afghani”. Richieste decisamente disallineate dall’attualità di un Paese governato dai talebani, grazie alla fuga dell’Occidente.

Imbarazzante, pertanto, leggere la parte successiva della dichiarazione di Stano: “Sosteniamo la protezione e l’adempimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali in conformità con le convenzioni internazionali, alle quali l’Afghanistan come Stato parte dovrebbe aderire, nel rispetto del diritto umanitario internazionale. L’Afghanistan non deve rimanere un rifugio sicuro per i terroristi, né una minaccia per la sicurezza internazionale”.

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Le lacrime di coccodrillo non si esauriscono nella nota del SEAE: “L’UE ha impegnato oltre 300 milioni di euro in aiuti umanitari e ha mobilitato 330 milioni di euro per mantenere i servizi di base e sostenere i mezzi di sussistenza, forniti tramite i partner delle Nazioni Unite, le organizzazioni locali e internazionali e le ONG”. Quanto possono essere performanti e di impatto tali iniziative in un contesto di intimidazione e violenza istituzionalizzata?

A poco possono valere le rassicurazioni finali del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna: “L’UE interagisce con le autorità de facto dell’Afghanistan per sollevare questioni chiave concordate lo scorso anno dai ministri degli Esteri dell’UE. Chiediamo alle autorità de facto di abrogare la legislazione e interrompere le politiche che violano gli obblighi in materia di diritti umani dell’Afghanistan e porre fine alle continue violazioni dei diritti umani, per consentire un processo politico inclusivo, adempiere ai propri impegni contro il terrorismo e consentire viaggi sicuri, protetti da e verso l’Afghanistan. Un’azione credibile e coerente dei talebani in questi settori aprirebbe la strada al dialogo interno e a un ulteriore impegno con l’UE e la comunità internazionale”.

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Insomma, l’Ue prova a “chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi”, nel disperato tentativo di proporsi come entità affidabile e influente in questo particolare scenario internazionale. Ma, come dimostrato dagli eventi, l’unico ruolino che può ricoprire è e resta esclusivamente quello di spalla degli Stati Uniti, ovvero i principali responsabili dell’attuale crisi democratica del Paese afghano. Lo stesso “Paese esportatore di democrazia” che, in data 29 febbraio 2020, con gli accordi di Doha (siglati dall’allora segretario di Stato USA, Mike Pompeo, e il numero due dei Talebani, mullah Abdul Ghani Baradar), ha posto inequivocabilmente le basi per il ritorno dei talebani al Governo, tagliando fuori dal processo l’allora esecutivo di Ashraf Ghani, e creando, di fatto, i presupposti per l’attuale crisi umanitaria in Afghanistan.

Emergenza umanitaria che da più parti si cerca di colmare oggi con le “milionate” di euro e dollari in progetti ‘no-profit’ dal dubbio impatto. Ma questa è un’altra storia.

Foto di USAID da Pixnio