Reddito delle famiglie: non cala il rischio di povertà e di esclusione sociale.

Nel 2021 poco più di un quarto della popolazione italiana è risultata essere a rischio di povertà o esclusione sociale (25,4%), quota sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%).

In lieve peggioramento, secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, la disuguaglianza nel 2020: il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,8 volte quello delle famiglie più povere (5,7 nel 2019), mentre il reddito netto medio delle famiglie è di 32.812 euro annui nel 2020.

Nel 2021, il 20,1% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà (circa 11 milioni e 800 mila individui) avendo avuto, nell’anno precedente l’indagine, un reddito netto equivalente, senza componenti figurative e in natura, inferiore al 60% di quello mediano (ossia 10.519 euro). A livello nazionale la quota rimane sostanzialmente stabile rispetto ai due anni precedenti (20% e 20,1% rispettivamente nel 2020 e nel 2019), mentre si osserva un certo miglioramento nel Mezzogiorno e al Centro e un aumento del rischio di povertà nelle ripartizioni del Nord.

Il 5,6% della popolazione (circa 3 milioni e 300 mila individui) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, ossia presenta almeno quattro dei nove segnali di deprivazione individuati dall’indicatore Europa 2020; un valore che risulta più basso rispetto a quello dei due anni precedenti (5,9% nel 2020 e 7,4% nel 2019). Inoltre, l’11,7% degli individui vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia con componenti tra i 18 e i 59 anni che hanno lavorato meno di un quinto del tempo, percentuale in aumento rispetto all’11% dell’anno precedente e al 10% del 2019.

La popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (indicatore composito), ovvero la quota di individui che si trova in almeno una delle suddette tre condizioni (riferite a reddito, deprivazione e intensità di lavoro), è pari al 25,4% (circa 14 milioni 983 mila persone), sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%). Questo andamento sintetizza, nel triennio considerato, il peggioramento dell’indicatore di bassa intensità lavorativa, il miglioramento di quello di grave deprivazione materiale e la sostanziale stabilità dell’indicatore del rischio di povertà nei tre anni.

Il Mezzogiorno rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (41,2%), stabile rispetto al 2020 (41%) e in diminuzione rispetto al 2019 (42,2%). In questa ripartizione aumenta la quota di individui che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (20,6% contro 19,2% del 2020 e 17,3% del 2019) e diminuisce quella degli individui a rischio di povertà (33,1% rispetto a 34,1% del 2020 e 34,7% del 2019). La riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale riguarda in particolare la Puglia e la Sicilia mentre è in sensibile aumento in Campania per l’incremento della grave deprivazione e della bassa intensità lavorativa.

Nel triennio 2019-2021 il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce anche nel Centro (21% contro 21,6% del 2020 e 21,4% del 2019), trainato da Marche e Lazio, mentre aumenta in Umbria e rimane invariato in Toscana. Nel Nord-est, ripartizione con la minore quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, questo indicatore peggiora nel 2021 (14,2% rispetto al 13,2% del 2020 e del 2019), con il Trentino-Alto Adige e l’Emilia Romagna stabili sia nel 2020 sia nel 2021, il Friuli Venezia-Giulia in calo nel 2021 (dopo il sensibile aumento nel 2020), il Veneto in crescita. Nel Nord-Ovest, il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 17,1% degli individui (16,9% nel 2020, 16,4% nel 2019), con la Lombardia stabile, il Piemonte e la Liguria in aumento.

Alto il rischio di povertà o esclusione sociale nelle famiglie numerose. Nel 2021, l’incidenza del rischio di povertà o esclusione sociale continua a essere più elevata tra gli individui che vivono in famiglie con cinque o più componenti e risulta in aumento rispetto al biennio precedente (38,1% contro 36,2% del 2020 e 34,3% del 2019). Più nel dettaglio, il rischio di povertà o esclusione sociale è maggiore tra gli individui delle famiglie con tre o più figli (41,1% rispetto al 39,7% nel 2020 e 34,7% del 2019), tra le persone sole (30,6%, come nel 2019, e in riduzione dal 31,6% del 2020), soprattutto tra quelle che hanno meno di 65 anni (34,6% contro 34,4% nel 2020 e 32,4% nel 2019), e nelle famiglie monogenitore (33,1% rispetto al 32,2% del 2020 e al 34,5% del 2019).

Il rischio di povertà o esclusione sociale si attenua per le altre tipologie familiari tranne che per le coppie con figli, per le quali aumenta al 25,3% rispetto al 24,7% del 2020 e al 24,1% del 2019.

Nel 2021, il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro dipendente (18,4% rispetto a 18,7% del 2020 e 20% del 2019) e il lavoro autonomo (22,4%, da 24,3% nel 2020 e 25,1% nel 2019), mentre aumenta per coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (33,9% da 33,5% nel 2020 e 31,8% nel 2019).

I componenti delle famiglie con almeno un cittadino straniero presentano un rischio di povertà o esclusione sociale sensibilmente più elevato (42,2%, da 45,1% nel 2020 e 38,1% del 2019) rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani (23,4%, contro 23,1% del 2020 e 24% del 2019). Vivere in famiglie con almeno uno straniero espone a un rischio di povertà e grave deprivazione doppio rispetto a quello di famiglie di soli italiani, mentre la bassa intensità lavorativa continua a essere minore (nel 2021 8,8% rispetto al 12,1% degli individui in famiglie di soli italiani) anche se la differenza si riduce a poco più di 3 punti percentuali nel 2021 dagli oltre 4 punti percentuali del 2020 e del 2019.

In calo i redditi familiari nell’anno della pandemia. Nel 2020, si stima che le famiglie residenti in Italia abbiano percepito un reddito netto pari in media a 32.812 euro, ossia 2.734 euro al mese. Nell’anno della pandemia Covid-19 il reddito delle famiglie è tornato a ridursi rispetto all’anno precedente sia in termini nominali (-0,9%) che in termini reali (-0,8%).

Il reddito equivalente, che tiene conto delle economie di scala e rende confrontabili i livelli di reddito di famiglie di diversa numerosità e composizione, è diminuito anch’esso in termini reali (-0,8%). In questo caso il reddito include alcune poste non considerate nella definizione armonizzata a livello europeo, quali buoni pasto, fringe benefits non monetari (a eccezione dell’auto aziendale inclusa anche nella definizione europea) e autoconsumi (beni prodotti e consumati dalla famiglia).

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Rispetto all’anno precedente, nel 2020 i redditi familiari medi in termini reali (esclusi gli affitti figurativi) sono lievemente cresciuti solo nel Mezzogiorno (+0,6%), diminuiti in modo significativo nel Centro (-2,0%) e nel Nord-est (-1,5%) e solo marginalmente al Nord-ovest (-0,4%). Le maggiori perdite si osservano per le famiglie numerose con almeno cinque componenti (-3,6%) e per le famiglie con almeno un componente straniero (-5,6%).

La contrazione complessiva dei redditi familiari rispetto al 2007, anno che precede la prima crisi economica del nuovo millennio, resta ancora notevole, con una perdita in termini reali pari in media al 6,2%. La contrazione è pari a -10,2% al Centro, a -7,8% nel Mezzogiorno, a -4,8% nel Nord-est e a -3,4% nel Nord-ovest.

Guardando alle diverse tipologie familiari, sempre rispetto al 2007, la diminuzione è maggiore per le famiglie più numerose (-2,7% per quelle con tre componenti, -5,9% per quelle con quattro e -11,7% per le famiglie con cinque o più componenti), è molto più limitata per le famiglie con un solo componente (-0,6%) mentre le famiglie con due componenti registrano una lieve crescita (0,9%). Notevole la differenza tra la perdita subita dalle famiglie composte da soli cittadini italiani (-5%) e quella delle famiglie con almeno un componente straniero (-13,8%).

Per confrontare le condizioni economiche delle famiglie di proprietari e inquilini (un quinto delle famiglie) è opportuno considerare nel calcolo del reddito disponibile anche l’affitto figurativo delle case di proprietà, in usufrutto o uso gratuito.

Nel 2020, il reddito familiare inclusivo degli affitti figurativi è stimato in media pari a 37.786 euro; considerando le variazioni in termini reali la riduzione rispetto all’anno precedente è pari all’1,2%, a causa della diminuzione degli affitti figurativi (-4,4%); identica riduzione si osserva per questo stesso indicatore, una volta reso equivalente.

Poiché la distribuzione dei redditi è asimmetrica, la maggioranza delle famiglie ha percepito un reddito inferiore all’importo medio. Calcolando il valore mediano, ovvero il livello di reddito che divide il numero di famiglie in due metà uguali, si osserva che il 50% delle famiglie residenti in Italia ha un reddito non superiore a 26.597 euro (2.216 euro al mese), con una riduzione dell’1,9% in termini nominali rispetto al 2019 (27.102 euro).

Le famiglie del Nord-est dispongono del reddito mediano più elevato (29.850 euro), seguite da quelle del Nord-ovest, del Centro e del Mezzogiorno, con livelli di reddito inferiori rispettivamente dell’1%, del 4% e del 25% rispetto a quello del Nord-est. Il livello del reddito mediano varia in misura significativa anche in base alla tipologia familiare. Le coppie con figli raggiungono i valori più alti con 39.139 euro (circa 3.260 euro al mese), trattandosi nella maggior parte dei casi di famiglie con due o più percettori. Le coppie con tre o più figli hanno un reddito mediano (35.676 euro) più basso di quello osservato per le coppie con due figli (39.880 euro) e anche di quelle con un solo figlio (38.797 euro).

Le famiglie monogenitore presentano un reddito mediano pari a 27.931 euro, e gli anziani che vivono soli nel 50% dei casi non superano la soglia di 16.073 euro (1.340 euro mensili). Anche le coppie senza figli percepiscono un reddito mediano più basso se la persona di riferimento è anziana (27.994 contro 32.517 euro delle coppie senza figli più giovani). Il livello di reddito mediano delle famiglie con stranieri è inferiore di più di 7.000 euro rispetto a quello delle famiglie composte solamente da italiani. Le differenze relative si accentuano passando dalle ripartizioni del Nord al Mezzogiorno, dove il reddito mediano delle famiglie con almeno uno straniero è pari al 54% di quello delle famiglie di soli italiani.

L’andamento del reddito familiare in termini reali nel corso del 2020 mostra gli effetti sia della forte riduzione dell’attività economica dovuta alla pandemia sia delle politiche pubbliche di sostegno al reddito: mentre i redditi familiari da lavoro dipendente e da lavoro autonomo sono diminuiti rispettivamente del 5% e del 7,1%, i redditi da trasferimenti sono cresciuti del 9,4% in virtù delle misure straordinarie messe in campo per fronteggiare l’impatto dell’emergenza sanitaria, raggiungendo una quota pari a circa il 37% di tutti i redditi familiari. I redditi familiari da capitale si sono invece ridotti del 4,9% a causa della contrazione degli affitti figurativi.

La perdita complessiva rispetto ai livelli del 2007 resta decisamente più ampia per i redditi familiari da lavoro autonomo (-25,3% in termini reali) rispetto ai redditi da lavoro dipendente (-12,6%), mentre i redditi da capitale mostrano una perdita complessiva del 15,6%, in gran parte attribuibile alla dinamica negativa degli affitti figurativi (-18,1% in termini reali dal 2007).

Lieve riduzione del reddito del quinto più ricco della popolazione. Per misurare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è possibile ordinare gli individui dal reddito equivalente più basso a quello più alto, classificandoli in cinque gruppi (quinti). Il primo quinto comprende il 20% degli individui con i redditi equivalenti più bassi, l’ultimo quinto il 20% di individui con i redditi più alti. Il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dall’ultimo quinto e quello ricevuto dal primo quinto (rapporto noto come S80/S20) fornisce una prima misura sintetica della disuguaglianza.

Se si fa riferimento alla distribuzione dei redditi equivalenti netti senza affitti figurativi, nel 2019, il rapporto è pari a 5,7, in miglioramento rispetto al 2018 (6,0) grazie anche all’introduzione del reddito di cittadinanza. Viceversa nel 2020, come conseguenza della pandemia da Covid-19, il rapporto peggiora lievemente a 5,8.

Considerando invence la distribuzione dei redditi equivalenti netti includendo gli affitti figurativi, il rapporto scende nel 2019 a 4,9 e risale a 5,1 nel 2020, ritornando al livello del 2018. Nel Mezzogiorno la disuguaglianza reddituale si conferma più ampia (il 20% più abbiente della popolazione ha un reddito pari a 5,5 volte quello della fascia più povera sia per il 2019 sia per il 2020) sebbene si registri un miglioramento rispetto al 2018 (5,8).

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Minori livelli di disuguaglianza si registrano nel Nord-est per entrambi gli anni (3,7 nel 2019, 3,9 nel 2020 stesso valore rilevato nel 2018). Il Nord-ovest segnala un miglioramento nel 2019 (4,3) rispetto all’anno precedente (4,5) per poi tornare allo stesso livello nel 2020 (4,5). Il Centro mostra valori stabili nell’ultimo triennio (4,4).

Il livello di disuguaglianza tende a ridursi al crescere del reddito medio familiare inclusivo degli affitti figurativi: sia nel 2019 sia nel 2020 il Mezzogiorno, con un valore minimo rispettivamente di 31.090 e 30.831 euro (media nazionale 38.319 euro nel 2019 e 37.786 euro nel 2020), presenta il livello di disuguaglianza più elevato, il Nord-est quello più basso, pur in presenza di un reddito medio che diminuisce sensibilmente nei due anni (42.897 euro nel 2019 e 42.095 euro nel 2020).

Una delle misure più utilizzate in Europa per valutare la disuguaglianza tra i redditi degli individui è l’indice di concentrazione di Gini. Sulla base dei redditi netti senza componenti figurative e in natura (definizione armonizzata a livello europeo), nel 2019 il valore stimato per l’Italia è pari a 0,325, in miglioramento rispetto all’anno precedente (0,328) che tuttavia peggiora nel 2020 (0,329). Nella graduatoria crescente dei Paesi dell’Ue27 l’Italia è al ventesimo posto nel 2019 (diciannovesimo nel 2018). Nel 2020, per i 26 paesi Ue27 per i quali è disponibile l’indicatore l’Italia si trova al diciannovesimo posto.

In Italia l’indice di Gini è più elevato del dato nazionale nel Sud e nelle Isole (0,346 nel 2019; 0,349 nel 2020); peggiora tra il 2019 e il 2020 ma resta inferiore al dato medio nazionale nel Nord-ovest (0,303 nel 2019 e 0,314 nel 2020) e nel Nord-est (0,277 nel 2019 e 0,288 nel 2020). Al Centro invece l’indice resta stabile sotto la media nazionale in entrambi gli anni (0,309).

Massiccio ricorso alle integrazioni salariali. A partire da marzo 2020 sono stati molti e di diversa natura gli strumenti messi in campo dal Governo per fronteggiare la crisi dovuta all’emergenza sanitaria: sostegno al reddito, mantenimento dei livelli occupazionali, alleggerimento per le imprese del costo del lavoro durante il periodo di inattività. È stato massiccio il ricorso all’istituto delle integrazioni salariali (talvolta riadattate per coprire una più ampia platea dei lavoratori) e ad altre misure una tantum, finanziate prevalentemente, se non esclusivamente, tramite la fiscalità generale. Parallelamente a questi interventi vi è stato il blocco dei licenziamenti individuali e collettivi per ragioni economiche, sino al termine del periodo di lockdown conseguente alle varie ondate pandemiche.

Si stima che, nel 2020, le integrazioni salariali abbiano interessato nel periodo emergenziale una platea di 6,04 milioni di dipendenti in costanza di rapporto di lavoro (37,4% della forza lavoro alle dipendenze del settore privato). La causale Covid-19 è stata estesamente applicata e ha riguardato il 97,4% di tutti i titolari di integrazioni salariali. In termini monetari, si stima che siano stati erogati 9 miliardi di euro di trattamenti integrativi netti con causale emergenziale. In media, ciascun beneficiario di integrazione salariale con causale Covid-19 ha potuto così disporre nell’anno di 1.495 euro in trasferimenti netti.

Rispetto al 2019, il ricorso alla cassa integrazione è cresciuto di 14 volte in relazione al numero di beneficiari e si è decuplicato in termini di spesa sociale netta. Dal punto di vista dell’incidenza del fenomeno, ovvero del rapporto tra beneficiari e totale dei soggetti con stesse caratteristiche, si osserva durante tutto il 2020 un maggiore utilizzo della cassa integrazione tra lavoratori a tempo indeterminato (41,5%) paragonato a chi invece dispone di un rapporto di lavoro a termine (23,7%).

Per quanto attiene la tipologia di contratto orario, non sussistono differenze di rilievo nella collocazione in cassa integrazione tra coloro che sono a tempo a parziale (43,2%) e a tempo pieno (40,9%). Le integrazioni salariali sono state più diffusamente impiegate nei settori alloggio e ristorazione (50,3% dei lavoratori del settore), industria in senso stretto (49,3%) e commercio (48,3%). Hanno invece investito solo marginalmente il settore delle attività finanziarie e assicurative (8,9%), l’agricoltura (5,2%) e quello di servizi domestici (3,5%).

Le lavoratrici del settore privato hanno avuto meno accesso alle procedure di cassa integrazione (34,2% contro 39,6% dei colleghi maschi). Guardando l’età, sono i lavoratori delle classi centrali (35-44 e 45-54 anni) a essere stati collocati in cassa integrazione più spesso dei colleghi più giovani (15-34 anni) o più anziani (55-64 e 65 anni e più). Sul territorio, il ricorso alla cassa integrazione è stato più intenso al Nord-est (40,8%), Nord-ovest (38,8%) e Centro (38,9%), minore nel Mezzogiorno (31,8%).

I restanti interventi emergenziali in materia di protezione del lavoro hanno riguardato sia le forme di sostegno del reddito a rapporto cessato (proroga dell’indennità di disoccupazione NASpI), sia le misure una tantum (c.d. bonus 600-1000 euro) per la tutela dei lavoratori autonomi e atipici, degli stagionali e intermittenti alle dipendenze, che hanno cessato, ridotto o sospeso l’attività o il loro rapporto di lavoro.

Per quanto concerne la proroga NASpI, si stima che nel 2020 sia stata estesa a favore di 210 mila beneficiari per un importo complessivo di 410 milioni di euro. Da osservare come tra i due anni 2019-2020, gli strumenti preesistenti di tutela dei lavoratori a rapporto cessato (escluso il TFR), abbiano registrato un incremento relativamente contenuto nei valori delle prestazioni nette per la disoccupazione (+8%) e del numero dei relativi beneficiari (+4%), a conferma degli effetti positivi derivanti dal dispiego imponente di risorse emergenziali per la tutela occupazionale.

Una platea di 4,3 milioni di lavoratori per il bonus 600-1.000 euro. In riferimento al bonus 600-1000 euro emesso nel 2020, si stima sia stata di circa 4,3 milioni la platea dei beneficiari a fronte di un trasferimento netto in denaro di 6,2 miliardi di euro (1.451 euro a persona). In termini di quota, vi è un più elevato tasso di utilizzo del bonus tra gli autonomi (54%) e co.co.co (34,9%) e uno di gran lunga più basso tra i lavoratori dipendenti (4,8%). Ciò in ragione del fatto che questi ultimi hanno potuto disporre di una serie ammortizzatori sociali a loro specificatamente dedicati.

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I settori di attività dove è stata più intensa la fruizione del bonus variano in funzione della tipologia di occupati. Per gli autonomi i tassi di utilizzo del bonus sono superiori al 50% in quasi tutti settori, con l’esclusione di coloro che operano nell’ambito della pubblica amministrazione (14,7%), dell’istruzione, della sanità e servizi sociali (23,6%). Nel caso dei dipendenti, il settore agricolo fa segnare un tasso di fruizione pari al 46%; segue a distanza quello di alloggi e ristorazione (12,8%).

Il differenziale di genere sui tassi di accesso alla prestazione è pari al 6,5% per le varie tipologie di lavoratori prese nel complesso (16,1% per gli uomini contro 9,6% per le donne). A livello territoriale i lavoratori del Mezzogiorno (15%) hanno avuto maggiore accesso al bonus rispetto a coloro che risiedono in altre aree geografiche (tutti sotto il 13%).

Analizzando la composizione dei titolari del bonus 600-1000 euro per condizione professionale, si nota come questo strumento sia stato prevalentemente appannaggio dei lavoratori autonomi (67,1% contro 22,3% dei lavoratori dipendenti, 4,8% dei collaboratori e 5,8% dei disoccupati). In particolare, all’interno della platea dei beneficiari con reddito prevalente autonomo, spicca la figura professionale del lavoratore in proprio (59,4%) e quella del libero professionista (21,5%).

Bonus baby-sitting per 765 mila genitori. Durante la sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle attività didattiche delle scuole il Governo ha dato la possibilità ai lavoratori di ottenere un bonus monetario (c.d. bonus baby-sitting) a risarcimento dei costi sostenuti per i servizi di assistenza e sorveglianza ai minori.

In Italia sono stati 765 mila i lavoratori che hanno visto accolta e liquidata la richiesta del bonus baby-sitting nel 2020, per un valore complessivo di 873 milioni di euro (in media 1.141 euro a persona). Altra misura emergenziale con obiettivi simili è quella del congedo parentale straordinario al 50%. In questo caso sono stati circa 526 mila i lavoratori che ne hanno fruito nello stesso anno, per una spesa netta di 251 milioni di euro a copertura del periodo non lavorato (476 euro pro capite).

Infine, durante lo stesso periodo emergenziale è stata concessa la possibilità di estendere la durata dei permessi retribuiti di cui alla Legge n. 104/1992. Il numero stimato dei titolari di permessi risulta molto contenuto, sfiorando le 15 mila unità, per una spesa media netta pro capite di circa 590 euro.

Oltre alle misure di protezione sociale dedicate ai lavoratori e alle loro famiglie, il legislatore ha introdotto nel periodo dell’emergenza sanitaria una misura straordinaria specificatamente orientata al contrasto alla povertà: il Reddito di emergenza (Rem). Nato con l’obiettivo di supportare i nuclei familiari in condizioni di necessità a causa della crisi economica da pandemia e pertanto soggetto alla prova dei mezzi, il reddito di emergenza ha consentito di alleviare la condizione di disagio economico di circa 330 mila famiglie nel 2020, con trasferimenti monetari (assistenziali) stimati nell’ordine di circa 682 milioni di euro (2.085 euro a famiglia).

Ruolo chiave del reddito di cittadinanza durante la pandemia. Tra le misure preesistenti di contrasto alla povertà, nel 2019, 970 mila famiglie sono risultate beneficiarie del Reddito di Cittadinanza. Il 3,8% circa ha usufruito in media di importi annui poco oltre i 3.980 euro. Nel 2020, l’anno dell’esplosione dell’emergenza sanitaria, si stima che il RdC abbia raggiunto oltre 1,3 milioni di famiglie (5,3%), con un beneficio annuo di 5.216 euro pro capite; questa quota sale al 15,2% per le famiglie del quinto più povero e al 6,1% per quelle del secondo quinto. L’impatto del trasferimento è stato in media pari al 29% del reddito familiare complessivo (46,5% per il quinto di famiglie più povere).

Il 10,7% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno ha ricevuto almeno una mensilità del RdC, quota di gran lunga superiore a quella registrata nel Nord-est (1,7%), nel Nord-ovest (2,9%) e nel Centro (3,6%). Le famiglie con 5 o più componenti ne hanno usufruito in misura maggiore, 10,9% contro 5% delle altre. Circa il 10% delle famiglie con almeno un componente straniero ha percepito il RdC, quota doppia rispetto alle famiglie formate da soli cittadini italiani.

Misure di sostegno straordinarie per oltre un terzo delle famiglie nel 2020. Nel 2020 il complesso dei trasferimenti e delle misure straordinarie di sostegno ha attutito gli effetti della pesante contrazione dell’attività economica. Più di una famiglia su tre (36,2%), ha beneficiato di almeno una delle misure emergenziali rilevate (integrazioni salariali con causale Covid19, proroga indennità di disoccupazione, bonus 600-1000 euro, contributi a fondo perduto erogati dall’Agenzia delle Entrate, bonus baby-sitting, congedo parentale straordinario al 50%, incremento dei permessi retribuiti ex-legge 104/92, reddito di emergenza), per un totale pari al 2,2% del reddito complessivo.

La quota di famiglie che hanno usufruito delle misure di sostegno è stata più elevata al Nord-est (39,7% contro 37,0% del Nord-ovest, 37,5% del Centro e 32,6% del Mezzogiorno), tra le famiglie numerose (65,7% delle famiglie con 5 o più componenti contro 26,4% di famiglie con due e 19% con un solo componente) e tra quelle con almeno un componente straniero (il 48,1% rispetto al 35% delle famiglie di soli cittadini italiani). Ha ricevuto trasferimenti legati all’emergenza sanitaria circa il 70% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo e la metà di quelle con reddito principale da lavoro dipendente.

Tra le famiglie che hanno avuto accesso alle misure, l’importo medio dei trasferimenti è stato pari a poco meno di 2.000 euro (5,2% del reddito familiare). Il sostegno è stato rilevante per le famiglie del Mezzogiorno, con trasferimenti pari in media al 6,7% del reddito complessivo, per le famiglie con stranieri e per le persone sole (rispettivamente per il 6,8% e l’8,3% del reddito), e in generale per le famiglie più povere: le famiglie del primo quinto di reddito hanno ricevuto trasferimenti per circa il 14% del reddito totale (5,9% per le famiglie del terzo quinto, 2,7% per le famiglie più ricche dell’ultimo quinto).

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