L’ultima balla del pandemicamente corretto: il fascioesercente.

Ricorrendo a Eschilo si dice spesso che in guerra la prima vittima sia la verità. Ciò, senza dubbio, è stato vero in Italia nella guerra al coronavirus. Con il deflagrare della pandemia nacque infatti il mito del “modello italiano” invidiato da tutto il mondo. L’Italia e la sua cialtronesca classe dirigente tutto erano fuorché un modello ma per qualche tempo la supercazzola di Rocco e i suoi fratelli ebbe un certo successo.

Quando poi gli enormi nodi della gestione della crisi vennero al pettine, politici, giornalisti e facebookari filogovernativi propagandarono l’idea di un Italia divisa tra chi voleva salvare vite e chi voleva salvare l’aperitivo del venerdì. I critici dell’operato di Conte, Speranza e Arcuri, ça va sans dire, appartenevano alla seconda categoria. Se poi la critica era particolarmente efficace scattava l’accusa di “negazionismo”, il marchio d’infamia riservato in passato a chi metteva in dubbio la Shoà.

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Martedì, a più di un anno dall’inizio dell’emergenza, esercenti, ambulanti e autonomi sono scesi in piazza per protestare contro le chiusure che stanno desertificando i loro settori. Puntualmente, col pretesto di alcune inaccettabili ma limitate violenze, la protesta di persone a cui si impone di non lavorare è diventata un raduno di fascisti ed evasori fiscali. Una crudele e derisoria caricatura che nulla ha a che fare con l’informazione di un Paese democratico.

Nell’epoca del pandemicamente corretto sostenere i provvedimenti di un ministro che la ha sbagliate tutte è considerato maturo, responsabile, progressista. Al contrario, chiedere risposte e soluzioni a una crisi che pare senza via d’uscita è un atto estremista.

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Fra poche settimane festeggeremo la ricorrenza del 25 aprile. Non ci stupiremmo se, dalle parti de “La Stampa” o del “Corsera”, qualcuno stesse già riscaldando la melassa per celebrare il lockdown quale atto di resistenza antifascista.