Liberi istanti: arte, aspettative e insoddisfazione umana.

Qual è il potere di un’opera d’arte, ci si domanda, pensando ad un caso famoso della letteratura come il Werther di Goethe – tanto da dare il nome ad una teoria sociologica che si ispira ai fatti che seguirono la sua diffusione, lo stuolo di suicidi di giovani sospinti dall’estrema immedesimazione con l’opera, in solidarietà con le pene del personaggio e le proprie. Tuttavia, tralasciando effetti così estremi, attenendoci unicamente al principio di riconoscimento che l’essere umano percepisce nell’arte, che ciò avvenga nel suo riversarci dentro stati emotivi e alto sentire o il piacere della fruizione stessa, non è una novità che offra rivelazioni sull’animo umano, rivelazioni a cui siamo ormai avvezzi.

Per esempio, concentriamoci sul Decadentismo. Premessa necessaria è che la definizione del periodo in cui si sviluppano i movimenti è affare di critici ed esperti, perciò ci atterremo a periodizzazioni accennate e non troppo specifiche allo scopo di visualizzare l’epoca – e non è un mistero che le variazioni di luogo creino non pochi problemi, oltre alle tendenze di continuità e non di netto stravolgimento e non in modo assoluto talvolta, e così vale per l’inizio e la fine del loro prevalere. Insomma, prendiamo il tutto con estrema cautela.

Quindi il Decadentismo, che si diffonde tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento in Europa, è il punto di arrivo di una vera crisi della ragione, conflitto che già esisteva nel Romanticismo, pur in una certa continuità col periodo dell’Illuminismo in relazione a certe tematiche e tendenze che vanno mescolandosi con le innovazioni tipiche del periodo romantico, di cui per altro il decadentismo riprende e porta alle estreme conseguenze alcuni temi.

Le tendenze del Decadentismo sono incentrate sull’arte e la bellezza – e non solo, ma ai fini del discorso di queste ci si servirà. L’estetismo infatti porta il binomio arte e vita a coincidere: l’arte viene vissuta come rappresentazione di sé stessa, come arte per l’arte, custode di un simbolismo che concede di penetrare l’essenza delle cose e della natura, e l’aspirazione a far coincidere l’arte con la vita viene perseguita rendendo la propria stessa vita la prima delle opere d’arte, come per esempio era per D’annunzio, illustre autore italiano decadente. Il personaggio di Huysmans, nel suo famoso romanzo A ritroso nonché rappresentativo di questo periodo, cerca di fare esattamente questo.

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Il bello e la bellezza trionfano e sono ricercati sulla via di quell’edonismo che esprime la sua ricerca del piacere, vissuto come autentico fine della vita. Si inseguono le sensazioni che danno piacere in un’immersione costante dei sensi, la fuggevolezza della vita effimera; così il dandy edonista ed esteta vive nel suo mondo di arte e bellezza, latrici anch’esse di piacere e come Dorian Gray, trema all’idea di invecchiare per non incorrere in limitazioni che possano ridurre le sue possibilità di vivere la sua vita all’insegna delle sue muse, il bello, l’arte e il piacere.

E sappiamo come la giovinezza sfugge e in quest’ottica, decisamente a proposito.

Che si andasse a parare ne Il ritratto di Dorian Gray era abbastanza prevedibile, ma ci si concentrerà su un solo episodio. L’opera è stata scritta nel 1890-91 ed è ambientata in una Londra pervasa da una mentalità borghese, quella stessa che costò all’autore un processo per omosessualità nel 1895, e come scrive Joyce su Oscar Wilde, il nostro autore appunto, «la sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra». Non sarà solo in questo caso e non solo in Inghilterra che tale mentalità ha fruttato processi e censure, vedremo.

L’episodio che fa al nostro caso è la vicenda di Dorian Gray e Sibyl Vane. Tale vicenda è stata ispirata da un’opera di Edmond de Goncourt in cui accade esattamente il contrario: serve innamorarsi davvero per recitare come Fedra. Invece nel caso di Sibyl la tragedia è invertita: quando non conosce l’amore è un’attrice splendida, al punto che Dorian, amante dell’arte se ne innamora perché in lei avviene il miracolo dell’arte meravigliosa e viva nella sua esibizione, la realtà raggiunge l’arte e si compenetrano. L’idealizzazione della vita nell’arte al punto che Sibyl è questo prodigio agli occhi dell’esteta. Ma la fanciulla non sa più recitare come prima, perché ora sa cos’è l’amore, amando Dorian e non riesce a fingere l’amore, l’arte imita la vita quando è vera, ma ora non riesce a superare la forza del suo sentimento reale e le sembra banalizzarlo, scimmiottarlo, il che non può far altro che trascinarla in uno stato di pessima attrice, d’improvviso e in Dorian causa un’atroce delusione, le dirà «Hai ucciso il mio amore», costernato.

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Perché mai prendere un esempio così estremo, dopo aver scoraggiato questo proprio al principio di quest’articolo? Perché se qua si cerca l’incarnazione di un’idea che vuole il doppio vita-arte essere una cosa sola e proprio la stessa, l’idealizzazione si può facilmente compiere nell’arte in maniere a noi tutti più familiari. L’idealizzazione è un meccanismo da cui forse nessuno è salvo e chi lo è, se mai esiste è a dir poco fortunato, seppur sia facile dubitarne ma ancor più capita che questo processo divenga immedesimazione e per così dire quasi una trasposizione nell’arte e dall’arte: vorremo che i sentimenti e le idee fossero come l’arte ce le ritrae e inconsapevolmente essa plasma le nostre aspettative, come se già quelle reali non bastassero.

Risultato: l’insoddisfazione umana. La stessa che è alla radice di Dorian, seppur nella forma di un’idealizzazione filosofica, la stessa che ha portato Flaubert a dire la celebre frase «Madame Bovary sono io»  e l’eroina verso una corruzione frutto di ingenue aspettative sull’amore, proprie e commutate dalle sue letture, nel tentativo di conciliare i suoi ideali romantici con la realtà e simbolo di quelle inconciliabili aspettative tradite che rivelano l’amara verità dell’animo umano, ovvero sia quel senso di insopprimibile insoddisfazione.

Così, ecco Flaubert. Siamo in Francia nella seconda metà dell’Ottocento nel bel mezzo del Naturalismo, movimento che si propone di applicare i metodi scientifici all’arte e alla letteratura usando i suoi metodi per descrivere la realtà in modo oggettivo e senza intervento soggettivo dell’autore – uno scrittore che è come un occhio che osserva e non uno che tutto vede, sapendo – e raccontando la vita quotidiana, le sue miserie, le classi subalterne, i crimini, i suoi segni di malessere, con una conseguente carica di denuncia sociale, ben diversa dal disimpegno decadente, per l’appunto per cui l’arte è vissuta come fine a sé stessa.Da qui si spiega la tematica e l’analisi effettuata da Flaubert, un realismo minuzioso dell’esistenza.

Per spiegare cosa s’intende, innanzitutto, la vicenda si ispira ad un fatto di cronaca quotidiana, la storia di due adulteri di provincia, un certo Eugéne Delamare e sua moglie Delphine Couturier. Madame Bovary uscì nel 1856 a puntate sulla rivista «Revue de Paris», con tanto di passi censurati a cui seguitò un processo nel 1857 con l’accusa di essere andato contro la morale sociale e religiosa. Fu il primo e più celebre intervento di censura e Flaubert alla fine fu assolto, fortuna che tempo dopo Baudelaire per «Le Fleurs du mal» non avrà. Così, insomma come Baudelaire svuota ogni sicurezza di tipo tradizionale, dal canto suo Flaubert trova il modo di compiere lo stesso con la sua penna sviscerando lo spirito borghese, la pigrizia verso la vita attiva e la sensualità repressa, i quali sono descritti tramite i suoi mezzi umani allo scopo di accertare questa realtà. Per fare degli esempi ricordiamo il padre di Charles che non abituato a lavorare né a negarsi gli agi, finisce in povertà e lo stesso vale per la stessa Emma che non è adatta alle fatiche agricole.

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Flaubert non solo studia il suo soggetto nel suo contesto storico, ma trasferisce le grandi passioni che prima erano dei nobili alle nuove classi ponendo realmente l’uomo comune nel ruolo di protagonista, approccio che si delinea come un salto di qualità. Ai suoi meriti si aggiunge l’espressione stilistica e la nitida e intensa penetrazione psicologica.

Quest’ultima, consente ancora di fruire del suo capolavoro e sentire i personaggi a noi vicini al punto da sentirci anche noi Madame Bovary, come ammise lui stesso, raccolti nel mare di insoddisfazione da cui la mente umana è incontrastabilmente sospinta.

Ed è questo stesso senso che spinge il suo perfezionismo a rileggere e limare continuamente e in un modo che porta nella sua opera un’alternanza di slanci lirici e di rigido descrittivismo, creando uno stile originale che si caratterizza per un’estrosa libertà che lascia il posto al controllo stilistico, in alcune opere più di altre, in alcune protratto quasi fino all’ossessione.

Pertanto questo inesausto e insostituibile dibattersi si pone come riflesso di quella frenesia smaniosa, quella forza vitale che spinge l’animo umano e che rivela la sua inesauribile insoddisfazione naturale e senza tempo nel conflitto tra le aspettative ideali e la loro corrispondenza nella realtà come Madame Bovary, che vive nell’ingenua ricerca del realizzarsi dei propri ideali romantici, circondata da persone interessate e scialbe, che non avrebbero potuto comunque portarla alla soluzione irrisolvibile di questo dissidio.

Giulia Pinna.

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