Trump “convince” Netanyhau: “Israele accetta una tregua di 60 giorni a Gaza”.
Se la comunità internazionale si spacca su Gaza, c’è invece un leader che dimostra di avere un’influenza determinante: Donald Trump. Il presidente USA ha annunciato che Israele ha accettato i termini per una tregua di 60 giorni nella Striscia di Gaza, un’intesa che – a suo dire – è stata raggiunta dopo un “lungo e produttivo incontro” tra i suoi emissari e il governo israeliano.
“Gli Stati Uniti lavoreranno con tutte le parti per porre fine alla guerra”. A facilitare il processo, ha aggiunto, saranno Egitto e Qatar, incaricati di presentare una proposta finale per la risoluzione del conflitto. Il leader repubblicano ha poi lanciato un monito ad Hamas: “Accettate questo accordo, perché non ce ne sarà uno migliore ma solo uno peggiore”.
Dietro l’apparente buona notizia, tuttavia, si cela un interrogativo politico di fondo: se è Trump – e non la diplomazia multilaterale o l’ONU – a convincere Benjamin Netanyahu a fermare le armi, allora qual è il vero centro di gravità del conflitto?
L’ascendente di Trump su Netanyahu – a differenza dell’impotenza mostrata da Europa, Nazioni Unite e altri attori – rende evidente come Washington abbia il potere (e dunque la responsabilità) di influenzare le scelte israeliane, anche quelle più tragiche. Se il cessate il fuoco si può ottenere con una telefonata da Mar-a-Lago, perché allora i massacri sono andati avanti per mesi? Circostanze simili, dopo anni di massacri nei balcani, portarono, dopo alcuni giorni di bombardamenti, agli accordi di Dayton e alla fine della guerra civile tra bosniaci, serbi e croati.
La questione non è solo diplomatica, ma etica e politica. L’ombra della Casa Bianca si staglia sempre più nitida sul sangue versato in Medio Oriente. E oggi, più che mai, il mondo deve chiedersi: chi guida davvero la guerra, e chi può davvero fermarla?
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