Sardegna, il centrosinistra spinge per l’aumento dell’astensionismo: dopo 13 anni dal referendum “anticasta” si vuole reintrodurre l’elezione diretta delle Province.
Il Consiglio regionale continua a peccare di tempestività e senso di servizio pubblico. E’, infatti, in calendario, il prossimo 8 luglio, la discussione della legge per reintrodurre l’elezione diretta del presidente e del consiglio provinciale. Enti verso i quali i/le sardi/e si erano già espressi nel 2012 per la loro abolizione con referendum vincolanti e consultivi.
Un provvedimento la cui sola discussione non può che candidarsi a rinfocolare il crescente sentimento verso l’inutilità del voto democratico: nel 2012, con il referendum “anticasta”, i sardi si pronunciarono, soltanto per rimarcare alcuni punti, chiaramente contro il mantenimento delle province sarde, i compensi ai consiglieri regionali e l’istituzione di quattro nuove province. Elezione (diversamente dai recenti referendum ideologici, indetti per misurare il “vigore politico” del centrosinistra) che vide un’affluenza del 35,5%, confermando una chiara vittoria per l’abrogazione delle province (venne superato addirittura il quorum del 33,3% richiesto dalla L.R. n.20 del 1957).
Oggi, dopo 13 lunghi anni, il centrosinistra “dei migliori” propone, invece, un’inversione di rotta, reintroducendo proprio quelle elezioni che i sardi hanno già detto con il proprio voto di non volere più, riattivando, in caso di approvazione, un aumento della spesa pubblica, quantificata dagli stessi proponenti, ovvero dai cosiddetti “redattori di tabelle” di via Roma.
Esponenti di bassa politica che in nome della solita retorica circa la “trasparenza e vicinanza ai cittadini”, continuano a ignorare la volontà popolare, puntando, invece, ad aumentare i costi della politica.
Un’anacronistica mossa in netta controtendenza rispetto al volere degli elettori/trici sardi/e, ma che si pone anche in perfetta linea di continuità – politicamente parlando – con gli sprechi stigmatizzati recentemente pure dal MEF (e incredibilmente non impugnati dal Governo Meloni, quasi a voler suggerire un ampio consenso bipartisan verso lo sperpero di risorse).
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