Sardegna fuori dai giochi per la Capitale italiana dell’arte contemporanea 2027: l’ennesima occasione persa tra retorica provinciale e cultura assistita.
Mentre la cultura nel resto d’Italia corre, in Sardegna si preferisce restare a guardare. Tra le proposte in corsa per diventare Capitale italiana dell’arte contemporanea 2027, infatti, la Sardegna continua ad essere assente, dimostrando la propria vocazione a rimanere mediocre all’interno del proprio piccolo mondo antico, fatto di polvere, retorica e flanella.
Diversamente, invece, gli altri comuni italiani hanno deciso di scommettere sulla cultura come leva di sviluppo, identità e attrattività. In Sardegna, si preferisce rimanere nella comfort zone, fatta di affidamenti diretti (fatti di cari e onerosi assestamenti di bilancio e disgustose manovre finanziarie del Consiglio regionale), bandi della Regione Sardegna (quando si vuol essere trasparenti) e di qualche fondazione bancaria locale.
Mentre altrove si lavora per costruire progettualità solide, capaci di coniugare arte, territorio e futuro, sull’isola si continua a barattare cultura con sussidi, progetti con prebende, e visione con la semplice e pura autoreferenzialità. La retorica identitaria — spesso sterile, folkloristica e chiusa nel recinto di un localismo ignorante e votato all’autoconsumo — continua, quindi, a soffocare ogni tentativo di reale apertura, confronto e crescita.
Dove sono, per esempio, le città sarde in grado di elaborare un dossier ambizioso, credibile, capace di dialogare con l’Italia e con l’Europa? Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano: nessuna ha sentito il dovere (o avuto la capacità) di mettersi in gioco. Non un’idea, non una proposta. Non un progetto che vada oltre la solita litania delle “radici”, di su connottu e della “tradizione” ripetuta fino allo sfinimento. Due balle di fieno, per usare un eufemismo!
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: anche a questo giro, infatti, nessun comune sardo ha presentato la minima proposta per un titolo che avrebbe potuto accendere i riflettori sull’isola, generare turismo culturale (quello che serve), stimolare l’economia creativa (che manca e non è sostenibile in Sardegna) e, finalmente, mettere la Sardegna su una mappa che non sia solo quella del folklore estivo o delle sagre, perennemente costose e, come dimostrato negli ultimi lustri, incapaci di creare sostenibilità per i territori. Ovviamente, escludendo gli interessi particolaristici dei promotori.
Nel frattempo, sempre per rimanere nel perimetro degli esempi, città come Chioggia rilancia il proprio porto come polo di arti contemporanee, Pietrasanta lavora sull’umanità dell’arte, Foligno e Spoleto costruiscono sinergie territoriali, mentre Varese e Gallarate mettono in rete industria, paesaggio e creatività. Progetti che parlano al futuro. Altro che festival delle “trombe e delle ideologie”.
E la Sardegna? Si accontenta di sopravvivere culturalmente a colpi di bandi regionali distribuiti col bilancino, di eventi fotocopia tenuti in piedi da finanziamenti pubblici (trasparenti o meno, pensando alle tabelle regionali) e di premi letterari che non generano alcuna filiera. Un sistema che vive di rendita, autocelebrativo, incapace di ascoltare, di innovare e di rischiare.
Ma senza visione e senza ambizione, non si va da nessuna parte. Men che meno verso una vera contemporaneità culturale. A voglia a frantumare i cosiddetti con i vari “nanneddu meu” “Procurade e moderare” e “No potho reposare”.
La Sardegna, è la sua risibile classe dirigente e “intellighenzia”, potrà anche continuare, dunque, a raccontarsi che “la cultura è nel DNA dell’isola”, ma finché non lo dimostrerà con i fatti, mettendosi in discussione continuerà a restare fuori dai giochi che contano.
E forse, è proprio questo il problema: a molti va benissimo così. Tanto ci saranno sempre gli assestamenti di bilancio a novembre e a luglio e le manovre finanziarie nel periodo invernale-primaverile.