Sardegna, dal paradiso al paradosso: il flop turistico dell’estate è solo l’inizio.
C’è chi continua a raccontare la favola della Sardegna come “terra autentica”, “meta da sogno”, “gioiello del Mediterraneo”. Ma quest’estate, molti turisti hanno smesso di credere alle favole. E i dati, condivisi dalle princiapli associazioni di categoria, parlano chiaro: prenotazioni in calo, spiagge semi-deserte in pieno luglio e strutture ricettive che arrancano. La Sardegna, così com’è oggi, dunque, non funziona più. Non regge il confronto con il resto del mondo. E il motivo non è (solo) il caro prezzi (ormai tutta la zona Euro non è accessibile alla cosiddetta classe media). È qualcosa di più profondo: una crisi strutturale e culturale, figlia di anni di autoreferenzialità, di “retorica della falsità identitaria” e mediocrità istituzionale, che tanti danni continua ad arrecare tra le fila di chi crea ricchezza in Sardegna.
In Sardegna, non ci si arriva facilmente. A parte poche linee aeree a costi da roulette russa e traghetti sempre più cari, in Sardegna non ci si muove. Anche i collegamenti interni fanno ridere (o piangere): ci sono località turistiche di richiamo – da Buggerru a Cala Gonone, passando per molti paesi dell’interno – dove non esiste una stazione ferroviaria né un bus degno di tale nome. Per raggiungerle serve un’auto (non tutti hanno la propensione a noleggiarla in vacanza), oppure un miracolo. E se riesci ad arrivare, buona fortuna a spostarti: i taxi sono pochi, irreperibili e carissimi. Il trasporto pubblico è una barzelletta. Ma si pretende di giocare nel campionato del turismo internazionale.
Il conto poi è salato. Sempre. 130 euro per una stanza con le piastrelle del ’78 e senza aria condizionata? Normale. Ma il servizio? Molto spesso, improvvisato, sciatto, persino supponente. L’accoglienza non è un’arte, ma un fastidio da sbrigare in fretta. Il turista? Uno scocciatore da spennare, ne più ne meno come fanno in tanti Paesi sottosviluppati come il caso emblematico di Cuba, giusto per fare un esempio. In troppi casi (lamentati anche dai cosiddetti “locals”) il comparto della ristorazione e dell’ospitalità continua a vivere in una dimensione provinciale, incapace di formarsi, aggiornarsi e competere. D’altronde in un’isola dove è sempre più difficile trovare addetti non è facile.
La narrazione ancora è ferma a vent’anni fa. Pecorino, cannonau e “pranzo col pastore”. Ma davvero basta questo a giustificare una vacanza da 2.000 euro a settimana? Siamo ancora fermi al “mistero della Sardegna da scoprire”, con proposte culturali piatte, autoreferenziali, fuori dal tempo, costruite più per compiacere gli addetti ai lavori e gli amici degli assessori che per affascinare chi arriva da fuori? E guai a criticare: si viene subito accusati di “non capire la nostra identità”. Ma quale identità, quella di un’isola incapace di evolversi, che si chiude nel vittimismo e nella mitologia etnografica da villaggio turistico?
Fa quasi tenerezza inoltre leggere i titoli dei giornali locali: “Turisti alla ricerca della Sardegna autentica”, “Tutto esaurito nei ristoranti del centro”, “Boom di corsi di culurgionis”. La realtà è che, andando oltre l’offerta di plastica “a sa sarda”, fatta di fritto misto e tagliere con spritz, la tanto decantata autenticità è oggi una parodia, ripetitiva e triste. Come se l’unico modo di scoprire un’isola fosse una gita nel “villaggio degli Ewoks“, tra pelli di pecora e suonatori di launeddas.
Nel 2025, altresì, la Sardegna è ancora ostaggio dei comitati di residenti che bloccano qualsiasi idea di innovazione, della mancanza di controlli sul territorio, e di un’amministrazione pubblica incapace di visione. Niente docce in spiaggia, niente servizi base e niente esperienze nuove, giusto per fare le pulci. Solo noia, degrado e improvvisazione. In un mondo dove ovunque si cercano stimoli, cultura, connessioni, la Sardegna propone solo mare e silenzi. Ma il mare non basta più. E il silenzio, quando è figlio dell’incapacità, diventa rumore assordante.
L’isola poi, da provinciale qual è, continua a non voler fare un bagno di umiltà. Ma sentirsi perfetti “e vittime dell’insularità” non può aiutare a emanciparsi e migliorarsi. Si continua, invece, con il solito psicodramma identitario, con la retorica della “resistenza culturale”. E la classe dirigente, in questo processo, ci sguazza e non aiuta, continuando a dissipare ogni anno centinaia di milioni di euro per foraggiare una offerta culturale e turistica “mediocre”, per usare un eufemismo e citare un grande della cultura italiana, Carmelo Bene.
I turisti – andrebbe ricordato ai provincialotti che vivono di rendita nelle “bidde costiere” e dell’entroterra rurale inaccessibile, non sono scemi, e oggi più che mai hanno mille alternative, più accessibili, meglio organizzate e più coinvolgenti. Se anche i sardi – come lo scrivente – scelgono di andare altrove per le vacanze, qualcosa vorrà pur dire.
La verità è scomoda, ma necessaria: la Sardegna è diventata una meta turistica sopravvalutata, lenta, autoreferenziale e poco ospitale. E non sarà una campagna social o la solita sagra (finanziata dagli imbecilli di via Roma) in costume tradizionale a salvarla. O si cambia, o si resta da soli. E si affonda. Perché il turista di oggi non cerca solo un mare bello: vuole sentirsi accolto, vuole servizi, stimoli e qualità. Vuole rispetto.
E forse, per cominciare, basterebbe imparare a guardarsi con occhi meno indulgenti. E con più coraggio. Una forza d’animo sempre meno riscontrabile nel sardo contemporaneo.
