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Referendum, flop annunciato. Vota solo il 28,08% degli elettori e la sinistra colleziona un’altra sconfitta.

Ancora una volta l’Italia si sveglia all’indomani di un referendum con il solito copione: affluenza al minimo storico, esito scontato, spese per le elezioni astronomiche e, soprattutto, una sinsitra sempre più distante dalle priorità reali del Paese. A spiccare, tra le macerie di questa consultazione popolare, è il nuovo tonfo della sinistra ideologica, che sembra non imparare mai dai propri errori e continua a lanciarsi in “avventure democratiche” autoreferenziali e velleitarie, ben lontane dai bisogni concreti del ceto medio.

Il referendum, fortemente voluto da una parte della sinistra progressista, si è trasformato in un boomerang politico. Non solo per la bocciatura nei numeri e nei contenuti, ma per l’incapacità di intercettare quel disagio crescente che attraversa la fascia sociale più colpita dalla crisi economica: lavoratori, piccoli imprenditori, famiglie schiacciate dall’inflazione e da servizi pubblici che peggiorano di anno in anno. Invece di affrontare i problemi reali, si preferisce, invece, continuare a proporre battaglie ideologiche che parlano solo a una ristretta élite intellettuale.

Il dato dell’affluenza – misero, drammatico e inchiodato al 28,08% degli aventi diritto – dovrebbe preoccupare chiunque creda nella democrazia partecipata. Invece sembra essere diventato un dettaglio secondario, sacrificabile sull’altare della visibilità mediatica e dell’identità politica. Ma il punto è: a che pro? Con quale ritorno per i cittadini? Ogni consultazione referendaria costa milioni. Milioni che, in un Paese in cui gli ospedali chiudono, le scuole cadono a pezzi e le infrastrutture si sgretolano, potrebbero (e dovrebbero) essere spesi diversamente.

Eppure, ci si ostina a proporre referendum “di bandiera”, incapaci di mobilitare le masse, ma utili forse solo per posizionarsi in qualche talk show o per rilanciare una narrazione politica autoreferenziale e lontana dalla realtà.

Una domanda però sorge spontanea: perché non si propone, oggi, un referendum davvero utile, per esempio sulla pubblicità dei bilanci dei sindacati? In un Paese dove ogni forma di rappresentanza e potere organizzato dovrebbe essere trasparente, è incredibile che, nel 2025, i sindacati – organismi che influenzano in modo sostanziale scelte politiche, economiche e contrattuali – non siano tenuti a pubblicare i propri bilanci in modo obbligatorio. La scusa? Sempre la stessa: “la paura del controllo”.

Una zona grigia che andrebbe finalmente illuminata, soprattutto alla luce di scandali, opacità e privilegi mai del tutto chiariti. Ma su questo, inspiegabilmente, il fronte “progressista” tace. E quando tace, acconsente.

Alla fine, ciò che resta di questo ennesimo referendum è una fotografia sbiadita della partecipazione democratica e una domanda ineludibile: quanto ancora dovranno sopportare gli italiani per colmare il vuoto tra politica e realtà? Perché se la democrazia è un esercizio di responsabilità, allora anche chi la invoca continuamente dovrebbe iniziare a farsene davvero carico.