Pagine di Quarantena: Anaïs Nin, la donna che trovò se stessa a Parigi.

Uno squarcio della Parigi perduta nel vortice dei folli anni ’20, amalgama di ispirazione, alcool, bagordi e tramestio di fugacità e dissoluzione, capitale della modernità, capace di suscitare l’amore di Hemingway, di trascinare nel suo panorama di libertà e vita sregolata molti artisti dell’epoca e in un lato spiccatamente intellettuale e bohémien, tra i tanti, la generazione detta da Gertrude Stein, perduta, per l’appunto. Una generazione che aveva vissuto il trauma della guerra e ne era emersa segnata e folle, al punto, come disse sempre la Stein in quell’iconica definizione, da non aver rispetto di niente, ‹‹pronti a bere fino a morire››. Subendo la sua fascinazione, ci giungerà Miller negli anni ’30.

E la stessa Anäis Nin, seppur vi approderà per motivazioni esterne, un’opportunità di lavoro che fu data a suo marito, non si lascerà sfuggire i contatti con artisti e intellettuali che occupavano le scene di Montparnasse. Non era il primo trasferimento forzato che le era toccato: sappiamo che a undici anni, costretta alla dolorosa separazione dal padre, si trasferirà con la madre a New York e si sentirà un’estranea rispetto a quella città frenetica, affollata, vivace, distante dall’anima di giovane ansiosa e intimista che avvertirà la mancanza della Francia. D’altro canto è questa stessa Francia custodita nella sua memoria che la Nin va a ricercare quando nel ’29 vi si trasferisce, senza riconoscerla; dopo una prima impressione sgradevole, ecco che si immerge in quel clima di fertile ispirazione che crea nella sua mente quell’immagine di calore, intimità, attenzione e sincero scambio che nostalgicamente rievocherà quando, a causa della Seconda Guerra Mondiale, sarà costretta a ristabilirsi a New York nell’esilio forzato a cui la costringe il corso della storia.

In questo decennio per lei abbastanza particolare, oltre alla centralità che le figure di Henry e June Miller inizieranno a ricoprire nella sua vita, si realizza la pubblicazione del suo studio su Lawrence, autore accolto con disapprovazione dalla società inglese a causa della morale vittoriana ancora imperante, del sovvertimento delle differenze di classe, degli espliciti riferimenti sessuali. Ma soprattutto per ciò che rappresenta: il risveglio di un’epoca, di quegli anni folli che si trovano a ribollire tra le due guerre.

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Ed in questo quadro la Nin si pone come la prima donna che non solo lo studia, ma ne applica una fervida apologia vedendo nell’opera il riconoscimento dell’identità femminile nell’esplorazione di sé stessa e della propria sessualità e dell’indipendenza della donna nell’ambito del matrimonio.  Indagine di sé e della sessualità che la Nin vive sia nella sua vita privata, come dimostrano le sue relazioni extra-coniugali sia nella sua collaborazione con Miller che sfocerà ne Il Delta di Venere e che si esprimerà nei Diari, vissuti in termini di auto-osservazione.

E a queste vie, si aggiunga la sua arte, in una sezione della sua produzione più intimista, intrisa di surrealismo e di quell’‹‹esplosione lirica›› che sarà propria del suo stile.

La Nin si avvicinerà infatti alla psicoanalisi, iniziando un percorso con Otto Rank, un allievo di Sigmund Freud. A prescindere del suo esito, questo contatto, in aggiunta all’influenza di Breton e di Rimbaud, porterà l’autrice all’attenzione verso temi come l’inconscio, il sogno e il simbolismo onirico e poetico.

Dalle discussioni con Miller sull’uso dei sogni nella scrittura e l’incastonarsi delle immagini si evince la sensazione da lei ricercata nell’intenso arazzo del suo comporre, quella provata durante gli episodi onirici in cui di lunghe conversazioni si conservano nella memoria poche frasi riconoscibili alla coscienza, ovvero la stessa condizione descritta da chi fa uso di droghe (sappiamo che provò l’LSD). Tale sensazione pervade il poema in prosa La casa dell’incesto, in cui l’intimo dell’essenza della Nin incalza in toni assoluti e surreali, nelle inusuali sinestesie e nell’epifania concatenata di sogni, immagini e figure generata dal lirismo divampante del suo stile. Tratti, questi descritti, che seppure in forma attenuata permarranno come sua cifra stilistica e nella raccolta di racconti liricheggianti de La Voce, sospesi tra realtà e sogno e intrisi di simbolismo. Quando Miller leggerà il manoscritto de La casa dell’Incesto e le chiederà chiarimenti, la Nin spiegherà ‹‹il simbolismo della nostra vita›› in un duplice aspetto di cui uno umano e uno poetico.

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Per lei, ogni cosa è allegoria e quelle astrazioni sono ‹‹distillazioni›› cariche di significati. Ne La casa dell’incesto si assiste ad un procedimento adoperato anche nei brani in prosa sopracitati, ossia il camuffamento di personaggi esistenti e delle sue vicende. Ad esempio, l’interpretazione del personaggio di Sabina, riferimento a June Miller. In occasione di una discussione con Miller sull’interpretazione che ciascuno ha dato di June, sua moglie, identificano due approcci: l’approccio di lui, ‹‹realistico›› che gli faceva sfuggire, secondo la Nin, la vera essenza di una personalità così eccentrica; l’approccio della Nin, che rinunciando a carpirla, ne creava un’autentica e mistificata ‹‹astrazione››, una mitologia nella quale June/ Sabina appare trasposta in tutta la sua forza quasi nelle sembianze di una dea, allo scopo di raffigurare in essa una multiforme estensione di sé stessa, un doppio, senza alcuna sensata intenzione di riprodurre l’inconscio della donna indecifrabile da entrambi amata.

Questo fatto consente di interrogarci sulla sua concezione del mondo della passione e spiegarci il titolo emblematico: secondo la Nin, amiamo la proiezione di noi stessi nella creazione dell’amante, da lei definito ‹‹un fantasma›› in quanto nasce dalla nostra immaginazione ed è parte di noi. Questa identificazione tra parto della mente e l’amato reale fa sì che quest’amore sia incestuoso. All’interno dell’opera compare propriamente una casa dell’incesto in cui si aggirano coppie biologicamente incestuose che in una lettura psicoanalitica e alla luce della tendenza all’idealizzazione dell’umanità si potrebbero leggere come incesti psicologici riferiti alla proiezione che di padre, fratello e madre si crea nella mente.

Un personaggio mistico sospira, desiderando che fosse a tutti concesso di lasciare ‹‹questa casa dell’incesto, dove negli altri amiamo solo noi stessi››. L’interpretazione di June mette in luce dunque l’approccio con cui l’autrice vaglia la realtà nella sua duplicità poetica e umana e offre l’occasione di concentrarsi su un altro aspetto, i rimandi alla sua vita.

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Premessa fondamentale è che qualsiasi forma di autobiografismo è per sua natura filtrata e alterata. In questo senso lo sono in primis i suoi Diari, da cui ricava eventi e ritratti apportando ad essi cambiamenti e omissioni e selezionando alcune parti. Quest’azione porta nei brani in prosa a strutture anticonvenzionali a causa dei cambi di progettazione dovuti a questi tagli e deformazioni, o ad esempio il fatto che i personaggi, strumenti dell’impatto emotivo a cui mirano i racconti, scompaiono nel momento di maggior intensità. Se si considera che il Diario non fu reso pubblico prima del ‘66, le sue opere suscitarono non poche perplessità nei contemporanei. Lei riteneva di essersi spinta talmente oltre con la fantasia e l’immaginazione da risultare incomprensibile.

Oggi, i Diari hanno fugato non pochi di questi dubbi, eppure il metodo della Nin (in cui il rimaneggiamento del materiale dei Diari è fondamentale) spinge a guardare oltre l’aspetto più tipicamente autobiografico: il mondo esterno è una linea guida. La narrazione in sé, nel suo configurarsi come una riflessione, si traduce in una rete sotterranea di simbolismi poetici che vanno aldilà degli eventi e dei personaggi, ritoccati con arte e oltre la loro forma. Per riprendere le sue stesse parole: ‹‹Riconosco l’autenticità metafisica››.

Alla fine del poema in prosa compare la figura di una danzatrice che balla ‹‹come se fosse sorda e non potesse seguire il ritmo della musica››. Mi viene in mente la scena di Mulholland Drive di Lynch al Club Silencio e al principio per cui tutto è un’illusione. In questo caso, se il Diario è una chiave per individuare il legame indissolubile tra la realtà su cui, nella sua variazione, si costruisce l’illusione, e quest’ultima, l’illusione non è forse di conseguenza la chiave per la realtà entro cui si dischiudono simbolismi poetici e umani?

 

Giulia Pinna

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