Liberi istanti. Non posso respirare

Alex, il protagonista di Arancia Meccanica
Alex, il protagonista di Arancia Meccanica

Dobbiamo rimanere nel limbo, a volte, per mantenerci lucidi nell’adoperare il discernimento, una delle libertà dell’individuo più profonde, che affonda nell’etica e nel più radicato umano sentire. In che senso nel limbo? Conosciamo tutti il magistrale film di Kubrick Arancia meccanica del 1971. Se forse può essere suscettibile di critica, seppur con ogni giustificazione di resa nel mezzo cinematografico, è che a differenza del libro di Anthony Burgess, dà una risposta al problema, capace di vanificare l’intera prova.

La forza del romanzo dell’autore britannico dall’assai prolifica e variegata opera, è senz’altro il fatto che quell’arancia, un frutto naturale e organico finisca alterata da qualcosa di artificiale e meccanico. Potremo pensare che quell’arancia sia Alex il protagonista e che il metodo Ludovico sia ciò che lo inficia. Ai fini di un messaggio così complesso, che Alex torni ad essere un’arancia sanata che non porti alcun segno di quel tremendo e agghiacciante artificio contro natura che gli è stato perpetrato, risulta troppo semplice. Così invece il romanzo lascia aperto lo sguardo su questo limbo, sull’avvicendarsi degli interrogativi e su quel che è giusto e sbagliato, sul libero arbitrio e la violenza.

La violenza disabilitata nel soggetto alla stregua di un dispositivo di sicurezza non elimina l’istinto violento che è nel personaggio, lo rende solo inerte e mansueto verso la violenza che gli viene inferta, a causa dell’affiorare di uno stimolo negativo a cui col trattamento si associa ogni sorta di comportamento deviante allo scopo di annullarlo ma col solo effetto di renderlo solamente impraticabile dal soggetto.

Ma il punto non è nemmeno cosa è giusto o sbagliato: la riflessione sul male si intreccia alla considerazione sul libero arbitrio che ci consente di scegliere e per prima cosa interrogarci sulle questioni etiche. Questo è il limbo cui si accennava, quest’area neutrale in cui i valori e le concezioni si avvicendano e si mettono alla prova. Qui, distinguiamo in confronti e riflessioni continue il bene e il male. Motivo per cui, dare una risposta definitiva e certa alla fine del film mitiga la portata saliente del messaggio trasmesso.

Ma a che pro fare appello al discernimento? Ricordare in primis un’opera simile, scritta con uno stile espressivo, nel gergo di Alex e del suo gruppo, articolato nei pensieri del protagonista in una tinta viva e realistica, inventando un vero e proprio linguaggio detto lingua Nadsat, un misto di inglese, parole mutuate dal russo e parole da lui inventate – nella sua attività di glossopoiesi, l’arte di inventare linguaggi artificiali.

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Eppure non solo: si vuole aprire una porta su quel limbo e sfruttare questa lotta interna allo scopo di approcciarci ad un altro argomento. Tutte le conquiste civili e i diritti che difendono la dignità umana, sono valori assodati e insostituibili, così come i conflitti che continuano a coinvolgerli, sintomo che ciò che li rende forti e inequivocabili non è solamente che siano certi e inviolabili, ma che richiedano continua riaffermazione anche in una società che se li racconta assimilati. Li rende forti il fatto che nel limbo le nostri menti li riconfermino indefessamente, affinché vi sia sempre una chiara visione di necessità e di indiscutibile valore, e così siano per la società imprescindibili.

Sembra paradossale dover difendere  e ricordare alla società tutta, diritti già da tempo acquisiti e incontrovertibili come il diritto alla vita, il diritto al rispetto della dignità umana che non contempli alcuna discriminazione di razza, né tanto meno che a prescindere dalla faccenda strettamente correlata alla  discriminazione razziale (ed ogni tipo di discriminazione possibile) l’adempimento della giustizia da parte delle autorità si svolga nel rispetto della dignità umana e della vita, come detto sopra e in ogni sua articolazione.

Immersi nel limbo etico in cui ci siamo immersi all’inizio, apriamo la mente nelle considerazioni affrontate a partire dal film American History X, film del 1998 del regista Tony Kaye.

Questo perché a parte l’etica generata e costruita a livello ideale, questa ha da calarsi nella realtà e nelle situazioni particolari, in questo caso l’America. La storia del razzismo in America ha origine al tempo dell’età coloniale, e non s’intende riportarla qui. Nell’appello al film si intende invece dare uno sguardo al presente e all’ estrapolazione di alcune sfaccettature utili.

Il pregio di questo film – di cui esistono alcune personalissime riserve, per alcune scelte e dettagli  -non sta propriamente nel crudo realismo che vi riporta ma nel mettere in luce che questo contrasto tra bianchi e neri si dibatte in un reciproco equilibrio ma non perché si osi sottovalutare la discriminazione subita dai neri nel corso del tempo, ma col nobile e luminoso intento di sottolineare che la discriminazione e la violenza sono processi che non fanno che richiamare sé stessi, amplificandosi a vista d’occhio. Nella lotta di conquista dei quartieri in periferie gravate dalla droga, dai crimini, dalle disparità d’opportunità, le sacche di povertà dilaganti, tutti prima o poi vengono feriti e la società deve ascoltare con attenzione i sintomi di disadattamento sociale che crea le stesse le disuguaglianze giuridiche ed è spesso all’origine di molti crimini. Insomma, gridano in questa forma alla società il proprio malcontento.

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Il film narra la storia di Derek Vinyard, interpretato egregiamente da Edward Norton, tramite il racconto di suo fratello Danny che riporta una storia americana “x”, una storia che nella sua specificità riflette vicissitudini presenti all’ordine del giorno, che è poi una perla che s’inserisce nella composizione del filo della grande storia.

Ed emergono molti dei problemi che investono l’America, il razzismo, le armi a scuola. Nella sua esposizione Danny ci segnala quella lotta di potere tra bianchi e neri, quel gioco che si svolge come la partita di basket riportata in un flashback, nella conquista degli spazi di esercizio del proprio dominio razziale.

Derek fa parte di un gruppo neonazista che inneggia al potere bianco e finisce in carcere per aver ucciso dei ragazzi di colore. Impressiona vedere il suo sorriso una volta compiuto il fatto e la ripresa che indugia sul corpo nudo accasciato nella sconfitta nelle docce e che s’attarda sul tatuaggio “potere bianco”. In prigione come afferma uno dei carcerati, peraltro un personaggio spassoso e franco che sarà capace di fargli superare il suo atteggiamento discriminatorio, è lui il “negro”. Una volta uscito Derek, tenterà di salvare Danny dallo stesso destino. Derek è egli stesso prodotto dei meccanismi della società, della rabbia furente dell’insoddisfazione: dal lutto del padre si nota che s’incattivisce, chiede giustizia, i neri diventano il suo nuovo bersaglio, nella furia contro una società che non ha protetto suo padre, vigile del fuoco che soccombe a causa di quel disadattamento sociale capace di creare criminali, lo spacciatore afro-americano che gli sparò, quando si recò nel suo  quartiere per spegnere un incendio.

Ma quello è solo una parte dell’iceberg, il film mette in luce che non occorre far parte di un movimento estremo neonazista per produrre razzismo: è un filo sottile e sotterraneo. In un flashback apprendiamo che il padre lo invitava a non credere alle parole del suo preparatissimo professore Sweenie poiché questi, di colore, aveva aggiunto al programma opere di letteratura afroamericana.

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E così si arriva alla scena che si vorrebbe esaminare. Seduti a tavola, la famiglia si trova a discutere, in occasione dell’invito a pasto di un ospite che si appresta a diventare il nuovo compagno della madre.

Parlano di vari casi di cronaca. Tra i tanti parlano del caso di Rodney King, un nero colto sotto droghe a percorrere ad alta velocità una strada statale ben oltre i termini consentiti. Viene fermato e qualcuno riprende l’eccesso di manganellate a cui viene sottoposto dai poliziotti. Quattro poliziotti contro un uomo solo.

Prendendo le fila della posizione di Derek, egli lamenta: è un criminale! E se avesse investito Danny, che avrebbero detto i benpensanti? E poi, lui ha attaccato i poliziotti anche se nel video non si vede, perché vogliono farti vedere solo quello che vogliono. Erano colpi eccessivi quelli ricevuti? E chi sono loro per giudicare? D’altra parte: «Noi società garantiamo ai poliziotti la piena autorità di prendere decisioni perché ci rendiamo conto che il loro lavoro è molto difficile e pericoloso.».

Così dice Derek, dicendo che per questo sono in grado di prendere le decisioni più giuste ed è vergognoso debbano difendersi dal fatto di aver compiuto il loro lavoro.

Non sembrano cose già sentite? Quanta responsabilità si dà al corpo di polizia assieme all’autorità perché compia il proprio dovere? Ma sappiamo tutti, a questo punto, che non è errore umano compiere una manovra che se insistita porta alla morte del soggetto. Da quando immobilizzare richiede eccesso di violenza o morte? Da quando la dignità di un uomo passa in secondo piano perché è nero e in più è un criminale? Non si tratta di lasciare impunito il criminale ma di giudicarlo equamente nel rispetto della propria personale dignità. E il fatto che le disuguaglianze investano un individuo a livello giuridico e per il colore della pelle siano ordinarie amministrazione, leva il fiato.

Così la storia di George Floyd che muore a Minneapolis, diventa stavolta l’ennesima storia americana x.

Photo credit

Giulia Pinna

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