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Legge di stabilità Sardegna. Il Mef rileva irregolarità, il Cdm non la impugna. I paradossi (ma non troppo) della politica italiana.

Nonostante le pesanti criticità rilevate dalla Ragioneria generale dello Stato, il Consiglio dei Ministri, nel corso dell’ultima seduta, ha scelto di non impugnare la Legge di Stabilità 2025 della Regione Sardegna. La prima del mandato di Alessandra Todde. Una decisione che, ancora una volta, getta luce sui tanti paradossi – forse non così sorprendenti – della politica italiana, dove la contrapposizione politica tra schieramenti è solo fumo per gli occhi confezionato (con sempre meno arte) per gli analfabeti funzionali.

Nel dettaglio, l’esecutivo nazionale, su proposta del ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, ha esaminato sedici leggi regionali. Tra queste, la Legge regionale n. 12/2025 – la cosiddetta finanziaria sarda – e la n. 13/2025 relativa al bilancio triennale 2025-2027. Entrambe sono state lasciate passare senza impugnativa, nonostante i dubbi sollevati dagli uffici tecnici del Ministero dell’Economia.

La Ragioneria dello Stato aveva lanciato un chiaro segnale d’allarme: oltre 180 milioni di euro assegnati senza criteri oggettivi, né procedure trasparenti. Risorse distribuite direttamente a parrocchie, associazioni, enti vari, spesso legati al mondo politico trasversalmente rappresentato (nella maggioranza e all’opposizione) nell’Aula del Consiglio regionale di via Roma. Tra i destinatari, vale la pena ricordarlo almeno una volta al giorno, tante realtà attive nell’organizzazione di sagre paesane, iniziative di scarso impatto e iniziative autoreferenziali. Il tutto, senza bandi pubblici né selezioni imparziali.

Secondo il parere tecnico del MEF, tali modalità violerebbero l’articolo 3 della Costituzione, che tutela proprio il principio di uguaglianza. L’accusa, nemmeno troppo velata, è quella di aver sostenuto (o meglio mantenuto inalterata la linea di continuità con il passato) un sistema di “contributi discrezionali”, in grado di favorire lobby e sostenitori politici, aggirando ogni principio di imparzialità.

La questione, tuttavia, non è nuova. La Corte costituzionale, già nel 2009, aveva ammonito sul rischio di incostituzionalità di norme che assegnano fondi pubblici senza criteri predefiniti. Eppure, a distanza di oltre quindici anni, il modello resta pressoché invariato.

Il caso sardo si inserisce in un quadro più ampio: anche in Sicilia, pochi mesi fa, il MEF aveva contestato lo scorso mese di marzo una manovra simile, da circa 50 milioni di euro.

“Norme mancia”, di fatto, che rappresentano strumenti diffusi (imprescindibili) nelle manovre finanziarie delle regioni insulari, alimentando un sistema opaco e clientelare.

Seppur tecnicamente legittimata, la scelta del Consiglio dei Ministri di non ricorrere alla Consulta lascia aperti interrogativi politici e istituzionali. Perché, pur a fronte di rilievi tecnici chiari, la politica nazionale decide di non intervenire? Si tratta di mera prudenza istituzionale o di un tacito via libera a pratiche difficili da estirpare? Perché, in questo caso, non si sente parlare di contrapposizione Stato-Regione? Lo si fa ogni 3 per 2 per iniziative di piccolo cabotaggio e non lo si può fare anche quando si spartiscono milioni di euro tra partiti di maggioranza e minoranza?

Infine, resta sullo sfondo una questione più ampia: l’assenza di un sistema di controlli efficaci e di sanzioni dissuasive nei confronti di chi gestisce il denaro pubblico con logiche personalistiche. Mentre la magistratura non interviene e gli organismi di controllo restano spesso inascoltati (non parliamo dei pochi media indipendenti ancora operativi), il sospetto è che la Legge di Stabilità continui a essere uno strumento di potere, più che di sviluppo.

Nel silenzio delle aule giudiziarie e nella disattenzione dei media nazionali, il copione si ripete. Cambiano i governi, cambiano i nomi, ma la sostanza – e i beneficiari – restano sempre gli stessi.

foto governo.it, licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT