L’Arabia Saudita tra “Vision 2030”, equilibri globali, armi e fragilità regionali.
La politica estera saudita (si spera in linea di discontinuità con il dimenticato caso Jamal Khashoggi) è oggi uno degli strumenti principali attraverso cui Riyadh cerca di accompagnare la trasformazione interna del Paese, dalla dipendenza dal petrolio alla diversificazione economica prevista dal piano Vision 2030. La strategia del regno si fonda sul concetto di multi-allineamento: mantenere la storica alleanza di sicurezza con gli Stati Uniti, senza rinunciare a rafforzare i rapporti con Cina, Russia e Paesi del Sud globale. Un approccio che garantisce margini di autonomia e influenza diplomatica, ma che espone anche a tensioni crescenti in un contesto internazionale segnato dalla competizione tra grandi potenze.
Il successo di Vision 2030, come sostiene un recente lavoro di indagine di Armin Wisdorff per il Parlamento europeo, dipende dalla capacità saudita di garantire stabilità in Medio Oriente. I conflitti in corso, dalla guerra a Gaza alle tensioni con l’Iran, minacciano di frenare gli investimenti e deviare risorse dalle riforme interne. La normalizzazione con Israele, sostenuta da Washington, resta bloccata: Riyadh insiste sulla creazione di uno Stato palestinese come condizione irrinunciabile. Intanto, il riavvicinamento con Teheran nel 2023 non ha dissipato le preoccupazioni saudite per il programma nucleare iraniano e per le attività dei suoi alleati nella regione.
La politica estera del regno è anche diplomazia energetica. Attraverso il controllo della produzione petrolifera in seno all’OPEC+, spesso in coordinamento con Mosca, l’Arabia Saudita influenza i mercati globali e rafforza le proprie relazioni strategiche. I proventi del greggio alimentano il Public Investment Fund, leva centrale per attrarre investimenti e consolidare legami con partner chiave come Cina e India. Parallelamente, Riyadh punta su nuovi settori – rinnovabili, turismo, digitale – per ridurre la vulnerabilità legata alla volatilità del prezzo del petrolio.
Con gli Stati Uniti, l’intesa rimane fondamentale ma meno scontata: le divergenze su diritti umani, Yemen e rapporti con Russia e Cina hanno incrinato la fiducia reciproca. Proprio Pechino ha rafforzato la sua influenza, diventando primo partner commerciale del regno e mediatore nel riavvicinamento saudita-iraniano. Anche Mosca è interlocutore strategico, soprattutto sul piano energetico, con un coordinamento stretto in OPEC+ e cooperazioni economiche in crescita. Riyadh mantiene una linea di “neutralità positiva” sulla guerra in Ucraina, condannando l’aggressione ma continuando a garantire ossigeno economico a Mosca.
Per l’Unione europea, l’Arabia Saudita è il secondo partner commerciale e un attore cruciale nella transizione energetica, soprattutto attraverso i progetti sull’idrogeno verde. Ma il rapporto resta segnato dalle critiche di Bruxelles e del Parlamento europeo sul dossier dei diritti umani: uso massiccio della pena di morte, repressione del dissenso, condizioni dei migranti e discriminazioni di genere. Il dibattito si è acceso ulteriormente con la presidenza saudita della Commissione ONU sullo Status delle Donne, contestata da eurodeputati e ONG.
Con un bilancio militare da 66 miliardi di euro, il regno resta il primo importatore di armi al mondo e punta a localizzare metà della produzione entro il 2030. Gli Stati Uniti restano il principale fornitore, ma Riyadh diversifica: accordi con Cina, Turchia, Pakistan e vari Paesi europei testimoniano la volontà di ridurre la dipendenza da un unico partner. La recente intesa strategica con Islamabad, che potrebbe includere il “paraguas nucleare” pakistano, riflette la ricerca saudita di nuove garanzie di sicurezza dopo i segnali di incertezza provenienti da Washington.
La diplomazia saudita è oggi chiamata a muoversi su più piani: garantire la stabilità regionale per non compromettere Vision 2030, mantenere l’alleanza con gli Stati Uniti senza rinunciare a legami stretti con Cina e Russia, e rafforzare la propria influenza globale senza perdere credibilità a causa delle violazioni dei diritti umani. Un equilibrio delicato, che potrebbe essere messo alla prova da nuove escalation in Medio Oriente o da un cambiamento della postura americana verso Pechino.
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