La Gioventù Sprecata. Il libro-inchiesta di Alberto Magnani sul lavoro giovanile.

Essere giovani nell’Italia di oggi è una colpa. Almeno nel mondo del lavoro, viste le basse retribuzioni, il precariato e la quasi totale assenza di un ricambio generazionale. Alberto Magnani, giornalista del Sole 24 Ore, nel suo libro “Gioventù Sprecata. Perchè l’Italia ha fallito sui giovani”, pubblicato da Castelvecchi editore nella collana Le Polene,  racconta la crisi dei suoi coetanei, delusi da una politica che sembra averli dimenticati, e riflette sui rischi che incombono sul nostro Paese, quali l’emigrazioni di massa di giovani lavoratori qualificati, un sistema previdenziale sbilanciato sulle vecchie generazioni e l’allontanamento degli under35 dalla “cosa pubblica”. Una situazione paradossale che penalizza la gioventù in Italia, che dovrebbe essere la maggiore forza per l’economia del nostro Stato, e che ci separa dal resto dell’Europa, condannando alla rassegnazione e, sempre più spesso, alla fuga.

Alberto, riprendendo un passo riportato sul tuo libro, perché è una colpa essere giovani in Italia?

Perché ti viene fatta percepire come tale. Il mercato del lavoro ti penalizza con contratti instabili, retribuzioni sotto la media e, più in generale, condizioni di lavoro che impediscono di mettere a pieno frutto le proprie competenze. La protezione sociale è praticamente inesistente e tutta sbilanciata a favore delle vecchie generazioni. La politica sembra indifferente ai tuoi problemi e preferisce cavalcare emergenze prive di fondamento concreto (pensiamo solo all’allarme sulle migrazioni, a quattro anni dalla crisi del 2015) piuttosto che porsi qualche domanda sul futuro delle sue nuove generazioni. È facile poi sentirsi ghettizzati, come una minoranza o una specie non protetta.

La ridotta dimensione demografica della popolazione under30 nel nostro Paese, può essere considerata una delle cause colpevoli di porre la questione giovanile in secondo piano?

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No, direi piuttosto che è una conseguenza. Non dimentichiamoci che la crisi demografica è figlia, anche, del deterioramento delle prospettive economiche. Non è un caso se i tassi di fecondità più elevati si registrano nelle province a più alto reddito come Bolzano, colando a picco dove il tenore di vita e i sistemi di welfare si fanno più modesti (o, nel secondo caso, del tutto inefficienti).

Quale intervento pubblico a sostegno dell’inclusione degli under35 nella società italiana, salveresti/bocceresti negli ultimi 5 anni?

È difficile individuarne uno solo. Sicuramente gli incentivi alle assunzioni degli under 29 e dei lavoratori nella fascia 29-35 anni sono stati (e sono) una misura con una propria efficacia, ma c’è un problema di fondo. I bonus dovrebbero essere uno strumento aggiuntivo rispetto a un piano di rilancio generale dell’occupazione. Altrimenti diventano solo un regalo alle aziende per tagliare il costo del lavoro. Intendiamoci, è del tutto legittimo che se ne avvantaggino. Ma di certo non è una misura che interviene al cuore del problema.

Quali sono i dati legati all’emigrazione italiana degli ultimi anni? Quali sono le principali destinazioni?

Si parla di oltre 100mila espatri l’anno, tra l’altro secondo statistiche Istat che vengono considerate sottostimate per un limite di metodo: considerano expat solo chi si è cancellato dall’anagrafe italiana, mentre sappiamo bene che ci sono decine di migliaia di connazionali che partono e restano all’estero per anni senza spostare la propria residenza. Tra loro, cresce in maniera preoccupante la quota di giovani sotto i 30 anni e profili a elevato livello di specializzazione. Fra le mete principali ci sono Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera e Spagna. Chiariamoci: il problema non è la mobilità professionale di per sé, diventata parte integrante del sistema economico globale. Peccato che l’Italia non attiri a sé flussi comparabili di risorse in entrata né, tantomeno, sia capace di favorire un controesodo dei professionisti

I giovani residenti negli altri Paesi dell’Unione Europea, stanno veramente meglio dei nostri connazionali?

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La risposta più corretta sarebbe: dipende. È chiaro che retribuzioni, carriera o persino welfare non sono e non devono essere l’unico criterio che stabilisce il grado di benessere di un individuo. La qualità della vita è più alta qui che altrove e anche su diversi servizi, con buona pace di alcuni catastrofismi, siamo un paese molto più avanzato di quanto si vorrebbe far credere. Penso alla sanità, pur con marcate differenze territoriali, o alle nostre scuole. Più in generale, l’esterofilia acritica è spesso sposata da chi ha avuto ben poche esperienze fuori dall’Italia. Basterebbe fare un salto anche solo in Austria per realizzare quante fragilità si trovino oltre ai nostri confini. Se però si parla di possibilità e tutele offerte in media, diventa davvero difficile sostenere che un giovane italiano sia avvantaggiato rispetto a un coetaneo danese o tedesco. Quando si parla di “bamboccioni” che non escono di casa e si cita l’intraprendenza degli scandinavi, forse è il caso di ricordare che in paesi come la Svezia si viene letteralmente pagati per uscire di casa. Il che non è una colpa, ovviamente, ma un incentivo che dovremmo provare a emulare

Riflettendo sulle strategie delle amministrazioni locali per coinvolgere gli under35 nella cosa pubblica, come nel caso delle consulte giovanili, dei parlamentini, ecc. , perchè secondo te queste iniziative si traducono in attività spot e senza seguito?

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Perché i giovani non devono essere trattati come una specie a sé. I giovani sono semplicemente dei cittadini ricompresi in una certa fascia anagrafica: i loro problemi sono i problemi delle altre generazioni, con le proprie particolarità e il proprio grado di intensità rispetto alla media.

Non solo politiche poco calibrate sulla condizione giovanile ma proviamo a fare anche un pò di autocritica. Secondo te quanto sono colpevoli gli stessi under35 della loro condizione svantaggiata nel nostro Paese?

Forse vedo troppa rassegnazione e troppa “connivenza” con lo status quo, mentre a questa età bisognerebbe tentare di cambiare il più possibile quello che si è trovato. Soprattutto se è ricco di storture e forme di ingiustizia sociale. Non dico la Rivoluzione d’ottobre, ma almeno una forma di denuncia e dissenso più diffusa rispetto all’abulia che regna sul problema. Però anche qui ci sono tanti segnali positivi, dalle cooperative alle startup hi-tech. Basta saperli individuare e, magari, raccontare.

Foto Castelvecchi Editore / Alberto Magnani