“Gianna, lei era mia sorella”, il racconto di Carmen Salis.
Carmen Salis con il racconto autobiografico “Gianna Lei, era mia sorella” (2016, Amicolibro), ci porta tra le mura di una casa e ci permette di fare la conoscenza di chi vi abita. Nel corso della storia si sono susseguite diverse tipologie di società, differenziate dall’ideologia imperante nel periodo, ma forse, un fattore che le ha tuttavia accomunate, è lo stigma con il quale alcune famiglie venivano e vengono tuttora marchiate. La colpa è quella di avere in famiglia una persona con una malattia mentale. Individui che possono essere solo posti ai margini, perché chissà per quale motivo la società ritiene, diversamente da altre patologie, una malattia per cui non esistono cure o ancora peggio, persone che non vale la pena curare. L’autrice ci porta dentro la sua casa e ci fa conoscere la sua famiglia e lo fa in modo ruvido, aspro, e senza giri di parole descrive la quotidianità familiare come un susseguirsi di piccole tragedie e altrettante illusioni che si consumano all’istante, con descrizioni che mettono quasi a disagio il lettore, esponendo le diverse dinamiche che si innescano all’interno del nucleo familiare. Si passa così dalla voglia di lottare a tutti i costi e dal porsi domande sul fatto che questo sia giusto, fino ad arrivare alla totale rassegnazione. Carmen Salis, ci porta dentro una storia vera, drammatica in certi momenti, ma capace in altri di far sorgere un leggero seppur amaro sorriso.
Gianna è un pugno sullo stomaco, perché è la cartina tornasole sulle paure recondite nelle inaccessibili profondità di ognuno di noi. Ci costringe a pensare quale sarebbe stato il nostro approccio, il nostro atteggiamento se questa, fosse stata anche la nostra storia. Mette a nudo la nostra capacità di amare per arrivare alla conclusione che questo sentimento viene condizionato, con il dubbio che sia più semplice allontanarli certi problemi più che affrontarli e in un certo qual modo conviverci. Pagina dopo pagina si avverte la paura, il disturbo che si scontra con l‘immedesimarci nella stessa situazione. Aumenta di intensità, come un volume che si alza, fino a creare un caos tutto intorno, un volume talmente alto che il caos si trasferisce dentro di noi, per poi farci percepire con angoscia che Gianna potevamo essere noi stessi o un membro della nostra famiglia.
Ma Gianna invece era altro, era una di quelle persone con la cognizione che la sua esistenza era diversa da quelle degli altri, e lei questa vita la portava avanti senza filtri. Quasi come una necessità di dover trascorrere qualsiasi giorno come fosse l’ultimo, consapevole che non avrebbe esaudito nessuno dei suoi desideri, come essere umano, come donna. Una consapevolezza che forse non si può attribuire a chi si ritiene “normale”.
Carmen Salis ci racconta di lei attraverso pagine crude, proprio senza quei filtri e fin dalle prime righe di una poesia a lei dedicata nella parte iniziale del libro, si avverte quasi l’angosciosa sensazione di sentirsi sconfitti per non avere avuto la possibilità di fare qualcosa per Gianna, anche solo con un abbraccio.
L’autrice ci racconta di come il concetto di “normalità” sia semplicemente una consuetudine, permeabile e modificabile da qualsiasi cambiamento, e ci spiega che qualsiasi evento riesce a cambiare delle situazioni ritenute immodificabili, come il banale sedersi attorno ad un tavolo e pranzare con il resto della famiglia.
Gianna era bipolare, e viveva quella quotidiana situazione di mal celata emarginazione in cui, prima dei medici, la gente “normale” aveva deciso che dovesse stare, ai bordi della società. Una pazza da deridere, da commiserare, da imitare addirittura, come qualcosa di comico, quando la malattia e i farmaci l’avevano ormai segnata definitivamente.
Ma se pazzia significa letteralmente: “qualsiasi forma di alterazione, permanente o temporanea delle facoltà mentali”, allora possiamo considerare pazzo chi irride e addirittura fa il verso ad una persona che ha solo il torto di aggrapparsi alla vita con le unghie, durante la sua esistenza che si è trasformata in una spaventosa tempesta che aumenta di intensità dopo ogni caduta, dopo qualsiasi delusione, in un disequilibrio che diventa sempre più complicato da reggere. Altrettanto pazzo è chi è rimasto indifferente e chi si scostava da lei, come disturbati da quella ingombrante presenza, perché la cosiddetta “pazzia”, disturba e bisogna tenerla lontana.
Purtroppo, non è vuota retorica, ma solo verità. Ad un certo punto, si entra a far parte della categoria delle cavie umane, con un nome che ha perso tutta la sua essenza e un elenco sempre più lungo di pesanti farmaci da associare. Il tutto condito dallo spocchioso e saccente atteggiamento dell’erudito di turno con il quale si rischia la “lesa maestà” per interrogativi legittimi da parte dei familiari, le altre vittime di questa triste storia.
Questo è un libro di denuncia perché i malati psichiatrici hanno diritto ad avere un nome e una dignità dal primo all’ultimo giorno della loro esistenza e nessuna, seppur crudele società ne tantomeno il sistema sanitario, può arrogarsi il diritto di sospendere o addirittura cancellare questa rispettabilità. Ma è anche nello stesso tempo un libro pieno di amore e poesia, perché questi due valori, sono collegati e sono l’uno essenziale all’altro.
Ma Gianna era soprattutto una persona buona e generosa e la lettura della sua storia permetterà di scoprire questo, percependo di volerle bene e considerarla almeno per un po’ la sorella di ognuno di noi.
Sono quasi dieci anni che Gianna viaggia per l’Italia, lei che l’aereo non l’aveva mai preso e nel 2022 a Palermo le è stato attribuito il secondo posto nella sezione romanzi editi nel Premio nazionale giornalistico “Nadia Toffa” e nel 2023 a Napoli, le è stato riconosciuto il secondo posto nel Premio letterario Internazionale Emily Dickinson sempre nella sezione romanzi editi.
Ci piace ricordarla come l’autrice la descrive nel prologo quando la piccola Carmen amava trascorrere ore nello spazzolare i suoi lunghi capelli neri.
“Aveva dei bellissimi capelli, pettinare lei era cento volte meglio che pettinare le bambole”.
Foto credits Carmen Salis, pagina facebook