Protagonisti della storia politica italiana, Gennaro Acquaviva: “Impreparazione drammatica della nostra classe dirigente”.

In una nazione dove si è ormai smarrita la passione politica a favore del culto dell’inconsistenza rappresentativa, è giustificabile l’esigenza di fare un nostalgico salto nel tempo insieme ai protagonisti di quella politica italiana che, se pur con tanti vizi, ebbe la capacità di dimostrare anche notevoli virtù. Una storia appassionante che vede tra i suoi protagonisti Gennaro Acquaviva, Presidente della Fondazione Socialismo, ex senatore del Psi e consigliere politico di Bettino Craxi, nonchè testimone di alcuni dei momenti più importanti della storia del nostro Paese, come la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica del 1984.

Senatore, come descriverebbe Gennaro Acquaviva a un giovane socialista nel 2020?

Un uomo di 85 anni, ancora vitale e attivo, ringraziando il buon Dio. Un marito, padre e nonno serenamente felice. Un italiano e un europeo orgoglioso di esserlo. Un socialista riformista di fede cattolica e di cultura socialcristiana, ancora ben convinto dei suoi ideali. Un politico fortunato che ha avuto l’occasione di lavorare con Craxi per sedici anni.

Lei è stato uno dei protagonisti della stipula del concordato fra Stato Italiano e Chiesa cattolica del 1984. A distanza di 36 anni è ancora convinto di quella scelta?

Recentemente si è celebrato il 150° anniversario della “Breccia di Porta Pia”. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri del Re sabaudo entrarono con le cannonate nella città eterna per deporre il Papa Re e affermare con la forza, ed anche la violenza armata, il principio liberale e cavouriano della “separatezza” tra Stato e Chiesa. Questo indubbio danno inferto all’anima unitaria di tutto un popolo fu gestito con accortezza e prudenza dalla classe dirigente, prevalentemente di affiliazione massonica, del nuovo Stato unitario, nel corso dei successivi cinquant’anni; esso fu sciolto l’11 febbraio del 1929 da Mussolini che, per prevalenti motivi opportunistici, accettò di sostituire il regime di “separatezza” con un concordato fondato sul “privilegio” per la Chiesa cattolica; principio confermato “obtorto collo” nel 1947 dall’Assemblea costituente del nuovo Stato repubblicano. Da allora, per molti degli oltre trent’anni successivi, le evidenti e note incongruenze tra i principi affermati nella Costituzione della Repubblica e il testo di Mussolini furono messe in frigidaire, pur se procurarono comunque dei bei dolori di pancia al rapporto tra i cattolici, la loro Chiesa e la Nazione dove pur sempre abitava il Papa da duemila anni. Ad un certo punto ci fu addirittura una rottura unilaterale del Patto del ’29: il varo della legge sul divorzio da parte del Parlamento italiano, con un voto clamorosamente confermato da un referendum popolare. Poi arrivò Bettino Craxi, nel 1983: cioè il capo di un governo autorevole e con basi solide, che poggiava su di una alleanza con il partito dei cattolici e che però era anche l’erede più autorevole e coerente della storia laica e anticlericale dei nostri lontani padri risorgimentali. Per sua bravura (e per stanchezza dei concorrenti) fu in grado di trovare rapidamente una intesa positiva con il Vaticano e con i vescovi italiani e che poggiava solidamente su un principio fondamentale e autorevole: dopo la “separatezza” e il “privilegio” fu capace di costruire con i preti un patto basato sulla “reciproca collaborazione”. Il 18 febbraio 1984, Stato e Chiesa, e cioè i veri sostanziali fondatori della Nazione italiana si giurarono l’un l’altro di collaborare lealmente e fortemente per il bene di un popolo, per tutti i suoi membri, a sostegno di tutti gli italiani. Gli uomini passano, ma i principi restano. E nella miseria del tempo che ci è toccato in sorte sono ancora di più convinto che questo principio è uno di quelli che conviene tenerci ben stretto; che soprattutto ci conviene tornare ad approfittarne sul serio, facendolo ancora fruttare.

Bettino Craxi, Karol Wojtyla, Gennaro Acquaviva
Bettino Craxi, Karol Wojtyla, Gennaro Acquaviva, foto Umberto Cicconi

Ecclesia libera in libera patria. Pensando a temi come l’eutanasia, la piena inclusione degli omosessuali nella società, ecc. è difficile essere allo stesso tempo cattolici e riformisti?

Io non ho mai sentito o vissuto una contraddizione tra la mia fede, il cattolicesimo vissuto e praticato che mi ha accompagnato costantemente in politica rispetto ai programmi e agli obiettivi del riformismo socialista, liberale e socialcristiano: una esperienza che ho frequentato con profitto per quasi sessant’anni. Per l’eutanasia penso che bisogna rimettersi serenamente alla volontà di Dio e nessuno del mio partito mi ha mai proposto o imposto di pensarla e di dirla diversamente. Per gli omosessuali ho sempre ritenuto che la loro autonoma e libera scelta di vita andasse non solo rispettata ma anche resa concretamente attiva e dignitosa, come per tutti gli uomini e le donne, senza discriminazione di nessun genere. E nessuno nella mia Chiesa mi ha mai proposto o imposto un diverso comportamento, proprio perché siamo tutti figli di un unico Dio, che è padre di ciascuno di noi.

Si dice spesso che i giovani non ricevono la stessa formazione politica rispetto a 30-40 anni fa. Dove sbagliano i partiti politici di oggi nel processo di cooptazione politica?

Ma lei dove li vede oggi dei partiti in Italia? I drammi politici del nostro tempo e cioè l’impreparazione drammatica della nostra classe dirigente, l’atmosfera rissosa e spesso irresponsabile e comunque asociale che ammorba la politica, l’incapacità di essere normalmente e mediamente seri, affidabili, responsabili, puntuali, competenti, equilibrati, lei pensa che possa derivare solo dai tempi infausti che ci sono toccati in sorte? Gli uomini e le donne che abbiano in sé il dono e la voglia di essere anche al servizio degli altri, e cioè dei buoni politici, non nascono sotto i funghi: sono il prodotto di un mondo, di un sistema, di una rete, di una cultura, di una speranza, di un sogno. Senza una “famiglia” educata e orientata a questo, senza un luogo e soggetti reali (un padre e una madre, dei fratelli e sorelle, una casa) capaci di farla vivere; senza una storia riconosciuta in grado di farcela amare sul serio, la politica non esiste, non vive, non produce nulla oltre il proprio ego: e allora non va da nessuna parte. La democrazia, al contrario del populismo e della dittatura, è un sistema delicato, difficile e anche complicato perché è molto impegnativo; per realizzarsi deve radicarsi in molti, deve conquistare la stima e l’amore disinteressato di tanti: potenzialmente di tutti. Però è la migliore forma di governo che ci siamo inventati: e gli italiani, cioè noi che viviamo nel presente, l’abbiamo potuta vedere dispiegare in tutte le sue potenzialità almeno per quarant’anni dopo il dittatore-populista che ci portò nel fosso, capendone anche e apprezzandone i pregi e i vantaggi. Perciò va fatto ogni sforzo per ricostruirne le basi: e cioè illuminarla con una idea attrattiva e giusta; dotarla di una casa reale e vera, abitata dai padri e delle madri che sappiano far crescere dei figli e che quindi siano disinteressati e preparati, lungimiranti e appassionatamente solidali, capaci di garantire libertà e progresso a tutti.

Nel suo famoso discorso in Parlamento sul finanziamento ai partiti del 3 luglio 1992, Bettino Craxi ha dimostrato che dire la verità in politica non è mai una buona idea. Lei è d’accordo con questa affermazione?

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La verità anche in politica è sempre meglio dirla che nasconderla sotto il tappeto. Naturalmente sarebbe meglio dirla con la prudenza necessaria: e anche a tempo e a luogo. Ad esempio. In ordine alla cosiddetta “corruzione della politica” Craxi, prima del 3 luglio 1992, non ne aveva mai parlato così chiaramente ma l’aveva costantemente resa esplicita come rischio attraverso tutto quello che aveva cercato di fare per riformare la politica, l’assetto dei partiti, l’articolazione della rappresentanza; e questo per tutti i quindici anni precedenti in cui aveva svolto un ruolo dirigente nel suo partito e, soprattutto, nel sistema politico nato dopo il 18 aprile 1948. Cosa era il suo disegno della “Grande Riforma” che ha rappresentato la base della sua battaglia rifondativa della forza socialista o cosa hanno significato le sue battaglie, anche esasperate, a favore dell’autonomia socialista (ad esempio contro il Pci) se non una rifondazione del sistema politico basandolo, questa volta, non sul consociativismo opportunistico perché forzato ma su di una alternanza realizzabile, credibile, positiva tra partiti in competizione tra loro. Se uno deve per forza stare al governo e l’altro non ci andrà mai sarà inevitabile corrompersi perché anche in politica l’occasione fa l’uomo ladro: non c’è niente da fare. La continuità forzata e inevitabile imposta al sistema politico italiano per stabilizzare il suo assetto dopo il 1947, ha sì prodotto pace esterna e stabilità, insieme a sviluppo e crescita; ma ha indotto anche tanto deficit strutturale (per pagare il consociativismo), e tanta corruzione inevitabile e stabilizzata, proprio per pagare la rendita obbligatoria imposta dalla mancanza strutturale di ricambio, sia di uomini che di pezzi storici della società italiana. Quindi, per avere oggi qualche idea più chiara di quello che è successo perché ci serva rispetto alle cose da fare in politica: 1) la verità è l’unica medicina con cui si può sperare di guarire le malattie di un popolo; 2) Craxi (e non solo lui, basti pensare ai democristiani) doveva agire più duramente e decisamente per costruire le basi capaci di realizzare l’alternanza. E, forse, poteva anche cominciare a parlare prima, e di più, della inevitabile corruzione che derivava dal blocco del sistema (oltre che dalle miserie degli uomini), magari un po’ prima del 1992.

Gennaro Acquaviva, Bettino Craxi, foto Umberto Cicconi

Qual è secondo lei il tratto meno conosciuto di Bettino Craxi?

Tendeva alla riservatezza ed era fondamentalmente un timido; inoltre le prove della vita lo portarono a pendere verso il pessimismo, pur mantenendo una positività permanente al fondo della sua personalità. La timidezza la combatté accentuando a volte aggressività e protagonismo, anche se sempre con accortezza, gran classe e simpatia, oggi inimmaginabili. Quel suo pessimismo “costitutivo” finì inevitabilmente per accentuarsi di fronte alle prove che gli portava davanti il potere crescente: una fase lunga in cui aveva potuto toccare con mano anche la miseria degli uomini.

Una domanda un po’ personale. Cosa le manca di più di Bettino Craxi e cosa gli rimprovererebbe se fosse ancora vivo?

Credo che Craxi manchi all’Italia (e all’Europa), non tanto a me. La sua energia, la sua forza intellettuale, la grandissima abilità politica, la sua dote di leadership che esprimeva e metteva in campo senza sforzo, accompagnate dalla straordinaria passione con cui affrontava le cose che faceva, a partire dal grande amore per il suo Paese: tutto questo sarebbe oggi di grandissimo vantaggio per l’Italia e per tutti noi. Per quello che mi riguarda, io sono molto cresciuto vedendolo lavorare e produrre. Il rimprovero che gli rivolgerei è abbastanza prevedibile: doveva continuare a vivere, a pensare, a stare con noi, ed a guidarci, naturalmente partendo dai suoi compagni. Senza di lui, integro e forte, non gliela abbiamo fatta: questa è la verità della nostra storia.

Secondo lei quali sono le vere motivazioni che spinsero Craxi a ‘fuggire’ in Tunisia? Ha mai avuto il sentore che temesse per la sua vita?

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Era profondamente convinto che l’operazione Tangentopoli, che lo aveva così drammaticamente (e irresistibilmente) appiedato, fosse il frutto di un’azione preordinata e attentamente costruita, anche con il concorso di agenti esterni alla sovranità italiana. Da questa considerazione ne deduceva la certezza che la sua vita fosse seriamente a rischio e che sarebbe potuto rientrare nel suo Paese, un paese che amava appassionatamente, solo da uomo libero.

Tangentopoli. Come ha vissuto la fine della ‘Repubblica dei Partiti’ Gennaro Acquaviva?

Sono, semplicemente e anche serenamente, tornato a casa: a casa mia, intendo, dove mi aspettavano a braccia aperte moglie, figli e nipoti, oltre a tanti cari amici. Certo allora, ma anche successivamente, mi sono interrogato più volte sulla mia esperienza politica nel Psi che allora si concludeva così tragicamente e che avevo iniziato, nel 1972, vent’anni prima, a seguito di un’altra sconfitta, quella del partito socialcristiano che avevamo costruito a fine anni ’60 a partire dalle ACLI e con la guida di Livio Labor (ma anche con Pierre Carniti), per rompere, da sinistra, il vincolo dell’unità politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana. Una riflessione, quella della fine del Psi, che ho poi con tanti altri compagni proseguito e approfondito negli anni, fino a raggiungere una prima e corposa sintesi nel 2012 con la pubblicazione di un volume di quasi mille pagine*, che rappresenta tuttora l’unica “confessione collettiva” che sia stata seriamente compiuta dagli attori maggiori di quelli che furono i partiti politici della Prima Repubblica.

Detto questo non voglio certamente cancellare il ricordo del sentimento di dolore e anche la tanta sofferenza con cui vissi quei due ultimi anni della nostra esperienza comune: da metà 1992 a metà 1994. A giugno ’92 si erano tenute le elezioni politiche ed io ero stato rieletto trionfalmente nel mio collegio senatoriale del Salento, addirittura sorpassando di parecchio il Pds guidato in quella circoscrizione addirittura da D’Alema. Anche l’avvio della nuova Legislatura era stata per me gloriosa: con il sostegno di Craxi ero infatti stato eletto capogruppo del Psi in Senato, un ruolo di alto prestigio e autorevolezza. Quello che avvenne quindi dopo il luglio 1992, a partire dal mancato incarico di Scalfaro a Craxi per fare il Presidente del Consiglio, preannuncio nettissimo della nostra sconfitta definitiva, lo vissi dunque abbastanza freddamente, quasi con distacco. Con uno spirito simile ebbi poi la forza (e la fortuna) di attraversare le fasi vieppiù drammatiche che seguirono, nell’autunno e nell’inverno, fino alle dimissioni di Martelli da ministro della Giustizia e al cambio della segreteria del Psi, con le dimissioni di Craxi e l’arrivo di Benvenuto. Se ripenso a quei giorni, il mio ricordo prevalente è che sentendomi in pace con me stesso reagivo al disastro generalizzato, al crollo di tutto quello che mi circondava, con serenità ed anche con distacco, pur se con amarezza e dolore. Alla fine del biennio di Tangentopoli, sulle ceneri del Psi costruimmo con Amato e Covatta, e basandoci su di un’intesa con la Dc residuale rappresentata da Martinazzoli, uno schieramento elettorale unitario composto da socialisti e democristiani che ricostruiva (fuori tempo massimo, purtroppo) tanta parte dei miei antichi desideri e propositi politici, perseguiti da una vita. E questo non a caso poteva avvenire solo nel momento della disgrazia, mentre tutto ci crollava intorno. Corollario minore di questa operazione fu anche, per merito di una decisione ultimativa di Mario Segni, la mia estromissione dalla partecipazione, da candidato al Senato, alla campagna elettorale del 1994 perché come mi spiegò allora l’“innovatore Segni”: “tu sei un bravo ragazzo, per bene e competente, ma la gente appena ti vede pensa a Craxi: e quindi non ti posso mettere in lista”. E di fronte a questa inoppugnabile verità, decretata da quel pseudo innovatore, destinato a finire rapidamente nel nulla, ma anche attore, purtroppo decisivo, del crollo di un sistema, presi serenamente la via di casa.

Quanto è credibile il concorso degli Stati Uniti nell’azzeramento della classe dirigente di quegli anni? Possibile destabilizzare un Paese democratico con un’inchiesta giudiziaria?

Angelo Sodano, Gennaro Acquaviva, Bettino Craxi, foto Umberto Cicconi

Dell’azione decisiva di agenti esterni nella crisi italiana io ne sono convintamente certo e di fatto, nell’ultimo decennio, ne ho scritto più volte. Ma non ho prove dirette da presentare, testi formali da indicare, testimonianze inoppugnabili che siano nella mia disponibilità. Posso solo proporre serenamente, basandomi sulla mia lunga esperienza, un ragionamento che a me sembra assai credibile soprattutto perché è fondato sui fatti: come le vicende legate alla tangente ENI-Petromin (1979/80), quella del conto Protezione (1980/81), infine quella delle conseguenze inevitabili a cui portò la crisi di Sigonella per persone, ambienti, carriere e relativo futuro, sia in Medio Oriente che nei servizi di intelligence d’Oltreoceano. Certamente è vero che un Paese forte e, di più, un sistema democratico solido non può essere destabilizzato radicalmente solo per le conseguenze indotte da una inchiesta giudiziaria. Le ragioni infatti che allora agirono a contorno ed a sostegno delle operazioni giudiziaria e giornalistica furono, infatti, diverse. Per non farla lunga mi limito a ricordare che: 1) l’Italia allora non era più da tempo un fattore importante nella collocazione strategica del mondo occidentale (e non aveva purtroppo un Papa italiano capace di difenderla); 2) il sistema politico di coté progressista era ormai in crisi profonda, insicuro e infragilito ed anche corruttibile e di più: esso, per la prima volta dopo il 1945, non aveva nessun punto di riferimento stabile e sicuro; ancora la classe dirigente imprenditoriale e finanziaria era in decadenza da anni, senza più capi carismatici ed ambienti di relazioni dotati di egemonia e saggezza e quindi era essa stessa pronta ad essere accantonata ed anche comprata; 3) infine quella élite minoritaria di innovatori ed anche di ottimi gestori della cosa pubblica che si erano dimostrati essere i socialisti, appariva sbandata e divisa, oltreché anch’essa intimamente penalizzata dalla corruzione.

Pensando ai diritti dei lavoratori, dovendo fare una speculazione di natura storica, come sarebbe stata l’Italia senza il Piano Marshall?

Gennaro Acquaviva, foto Umberto Cicconi

Avrebbe fatto la fine della Romania, arrabattandosi nel suo tradizionale tran-tran socio-economico e anche cultural-politico, nel segno della decadenza e del tirare a campare. Vorrei tornare a ricordare agli smemorati che allora, nel 1945, al di là e prima dei soldi, per merito prevalente degli americani, arrivò in Italia una cultura economica, una esperienza imprenditoriale, un accesso alle relazioni per il progresso e la ricchezza con chi contava, pensava, lavorava nel mondo che fu di primissimo piano. Questo livello fu inevitabilmente veicolato da quello che allora era il ceto altolocato, di matrice liberal-massonica rappresentato dagli eredi di Beneduce (da Menichelli e Mattioli fino a Cuccia e a Carli); ma esso ebbe allora la fortuna (anche per gli errori di Nenni) di incrociare l’emergente e innovativa intelligenza e forza, economico-sociale, di governo e di popolo, di gente come Paronetto, Vanoni, Saraceno e poi di grandi politici democristiani: da De Gasperi fino a Fanfani. Mentre la sinistra stava politicamente con i russi e la sua intellettualità discettava di economia, lavoro e ipotizzava il futuro partendo dal vincolo di principio della “lotta di classe”, questi mondi cattolici e liberal-massonici non solo portarono l’UNRRA ma rilanciavano l’IRI, si inventavano l’INA-Casa e la Cassa per il Mezzogiorno, rimettevano in moto un Paese che dentro di sé aveva la forza di grandi spiriti vitali ed era voglioso di crescere e desideroso di lavoro, soprattutto perché finalmente poteva vedere dietro l’angolo l’arrivo di un vero benessere.

Gennaro Acquaviva, Bettino Craxi, foto Umberto Cicconi

Dall’alto della sua esperienza a fianco dei protagonisti della storia politica italiana degli anni settanta-ottanta cosa si sente di dire alla nostra attuale classe dirigente?

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Di programmare rapidamente il suo ritorno a casa, se vogliono veramente il bene dell’Italia. Di agire concretamente a preparare, ricercare, raccogliere, formare, con urgenza, una nuova generazione di responsabili della cosa pubblica: rappresentanti eletti e politici di moderna e solidale esperienza ma anche amministratori preparati e probi della cosa pubblica.

Il Partito Socialista Italiano ha un proprio rappresentante alla Camera e al Senato. Numeri distanti dagli anni ’80 e primi anni ’90. Cosa manca al Socialismo per convincere gli elettori di oggi?

Gennaro Acquaviva, foto Umberto Cicconi

I socialisti (me compreso naturalmente) sono stati storicamente sempre dominati dal demone dell’individualismo, con una tendenza verso l’anarchia e con scarsa propensione ad una solidarietà collettiva. E però essi sono sempre stati, alla pari di altri, “il sale della terra”: perché la libertà e la voglia di progresso che hanno sempre avuto nel cuore, costruite per di più in una cornice di solidale uguaglianza li ha accompagnati costantemente, per tutta la loro lunga esperienza storica: quasi 130 anni, in Italia. È anche per questo che nel 1992/94, quando crollava la casa, essi si sono dispersi in mille rivoli, senza la forza vitale di un principio comune e di una leadership solidale che li tenesse vicini, li confortasse nella tragedia, gli desse una speranza per il futuro. Questo non toglie nulla, ovviamente, all’evidente e assoluta necessità, per la società italiana di oggi, di tornare a ricostruire dalle fondamenta lo spirito e il programma di un movimento politico, di un mondo reale e organizzato, di un sogno coerentemente fondato sulla attualità di una uguaglianza e sul progresso di tutte le donne e gli uomini del nostro tempo, che amiamo ancora chiamare socialismo. Questo non è solo un auspicio e una vaga speranza. Per esempio la Fondazione Socialismo è stata costituita, lavora appassionatamente e con costrutto a questo scopo da almeno quindici anni, anche con il grande contributo della sua rivista Mondoperaio, fondata da Pietro Nenni settantadue anni fa e tuttora viva, vitale, moderna, attrattiva, positiva.

Come le piacerebbe essere ricordato nella storia del Socialismo italiano?

Un mio amico che non c’è più mi scrisse una volta: la vecchiaia non è dare anni alla vita ma dare vita agli anni. Se io ho vissuto tanti anni di vita preziosa e positiva lo devo al buon Dio che me ne ha fatto dono ma anche ai tanti socialisti con cui ho lavorato, costruito e fraternizzato per realizzare un bel sogno.

*Il crollo, a cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta, Venezia, Marsilio, novembre 2012, pag. 1038.