Pagine di quarantena: la storia di “Satisfaction”.

Dopo quarantanni i Rolling Stones sono ritornati in cima alla classifiche con “Living in a ghost town”, brano registrato la scorsa estate in previsione di un nuovo LP ma pubblicato quest’anno per la sua attinenza con l’atmosfera spettrale delle città in lockdown. Beffardamente, tra i tantissimi che in tutto il mondo hanno cercato di cavalcare l’onda emotiva dell’emergenza pandemica per ottenere visibilità con canzoni fabbricate ad hoc, gli unici che ci siano realmente riusciti sono quelli che ne avevano meno bisogno di tutti: Gli Stones.

Il loro ritorno sulle alte vette delle classifiche, in un epoca dominata in lungo e in largo  da trap, rap, reggaeton e derivati, ci da l’occasione di rievocare le circostanze nelle quali venne alla luce il loro primo e più grande successo mondiale: “(i can’t get no) Satisfaction”. Mantra generazionale, canzone epocale, Satisfaction era e resta il brano dei Rolling Stones per antonomasia. I suoi versi, composti 55 anni fa, sono ancora attuali nel descrivere frustrazione e senso di inadeguatezza che attanagliano l’individuo soggetto alle pressioni e alle imposizioni della società. 

L’amore e la devozione, si sa, portano a volte i fan a immaginare che i capolavori dei loro beniamini siano nati in momenti  o circostanze memorabili. Nella realtà avviene spesso il contrario. La storia delle arti, e in particolare della musica, ha una ricchissima aneddotica al riguardo. Da Rossini che compose l’overture del “Guglielmo Tell” mentre pescava sulla riva di un fiume a John Lennon che scrisse “Lucy in the Sky with Diamonds” cazzeggiando su di un disegno realizzato dal figlio Julian. Ma veniamo alla storia di “Satisfaction”. Siamo in Inghilterra agli inizi del 1965 e, fra le tante band di un’irripetibile scena musicale, iniziano a farsi strada i Rolling Stones che, dopo essere già entrati in classifica con delle cover di brani Rhythm and blues (all’epoca era normale), hanno da poco raggiunto per la prima volta la vetta dell’hit parade con un brano originale a firma Jagger/Richards: “The Last Time”. La canzone in realtà è un plagio di “this may be the last time”, pezzo gospel del 1958, ma all’epoca nessuno se ne accorge. Gli Stones diventano quindi un nome di primo piano e iniziano un lungo tour mondiale intramezzato da brevi soste in Gran Bretagna. Di ritorno da alcune date in Francia, nei giorni che precedono la ripartenza per un successivo tour americano, il 21enne Keith Richards inizia ad abbozzare dei nuovi brani in previsione di alcune sessioni di registrazione che si terranno negli Stati Uniti. Una notte il chitarrista si sveglia con un riff e uno spunto di melodia in testa che prontamente registra in un marchingegno a bobine. La mattina dopo, ascoltando il nastro,  Keith vi ritrova il brano ancora senza parole e diverse ore del proprio russare. Di li a poco gli Stones volano negli Stati Uniti e, tra un concerto e l’altro, lavorano a dei nuovi brani. A Mick Jagger il pezzo scritto da Keith Richards piace e, mentre si trova a bordo piscina del Fort Harrison Hotel a Clearwater in Florida, ne scrive i versi.

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A metà maggio i Rolling Stones registrano alcuni brani negli studi della Chess Records di Chicago, autentico Sancta Sanctorum del blues, fra cui una prima versione del brano scritto da Keith Richards nel cuore della notte. Dopo circa una settimana, la band rientra in uno studio, questa volta gli RCA Studios di Hollywood, per continuare a lavorare sul pezzo. Keith Richards vorrebbe dargli una colorazione soul alla Otis Redding con l’accompagnamento di una sezione fiati. Il fido Ian Stewart, membro fondatore della band poi retrocesso a roadie e turnista occasionale, viene inviato nei paraggi ad acquistare un fuzzbox, un pedale che, distorcendo il suono, conferisce alla chitarra un suono simile a quello di un sax. L’idea è quella di utilizzarlo per creare una traccia guida per la sezione fiati che avrebbe inciso poi la parte definitiva. Il risultato è storia della musica rock. Nessuna traccia guida, nessuna sezione fiati ma solo Il suono immediatamente riconoscibile di una chitarra che suona il riff più iconico di sempre. Era nata “(I can’t get no) Satisfaction”.

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I discografici e gli stessi Stones ne sono entusiasti, con la sola eccezione del suo autore. Di farne un singolo Keith Richards non ne vuole proprio sapere. La canzone per lui non è granché e al massimo se ne potrebbe ricavare un lato b. Come poi siano andate le cose lo sappiamo tutti. Il brano scala ovunque le classifiche diventando immediatamente un inno per milioni di giovani e facendo dei Rolling Stones un fenomeno musicale secondo solo ai Beatles. Il tutto grazie a una canzone nata quasi per caso nel cuore della notte tra una russata e un’altra.

(I can’t get no) Satisfaction

(sparatevela in cuffia vi curerà dai danni di settimane di #andràtuttobene)

I can’t get no satisfaction
I can’t get no satisfaction
‘cause I try and I try and I try and I try
I can’t get no, I can’t get no

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When I’m drivin’ in my car
And that man comes on the radio
And he’s tellin’ me more and more
About some useless information
Supposed to fire my imagination

I can’t get no Oh, no, no, no
Hey, hey, hey. That’s what I say
I can’t get no…

When I’m watchin’ my TV
And that a man come on to tell me
How white my shirt can be
Well, he can’t be a man
‘cause he doesn’t smoke the same cigarettes as me

I can’t get no Oh, no, no, no
Hey, hey, hey. That’s what I say

I can’t get no satisfaction.
I can’ get no girl with action
‘cause I try and I try and I try and I try
I can’t get no, I can’t get no

When I’m ridin’ ‘round the world
And I’m doin’ this and I’m signin’ that
And I’m tryin’ to make some girl
Who tell me: baby, better come back later next week
‘cause you see I’m on a losing streak

I can’t get no Oh, no, no, no
Hey, hey, hey. That’s what I say

I can’t get no I can’t get no
I can’t get non satisfaction
No satisfaction, No satisfaction, No satisfaction

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